Il simbolismo del tiro con l’arco e il simbolismo della spada

Ananda Kentish Coomaraswamy

Dopo aver introdotto il lettore al significato primordiale della spada, Ananda Coomaraswamy illustra il simbolismo del tiro con l’arco che si cela ormai dietro l’apparente dimensione sportiva. L’autore intraprende quindi un viaggio che parte dalle corporazioni in Turchia, alle quali si era iniziati solo se in possesso delle necessarie qualificazioni, passa per l’India, e approda in Giappone dove ogni gesto dell’arciere obbedisce a ragioni trascendenti.

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Recensioni de Il Sentiero

Quaderni Asiatici 149 – marzo 2025

Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone di Véronique Brindeau, Casadeilibri editore,

pagine 96 illustrato, prezzo euro 21

ISBN-13 – 979-12-80146-15-1

  Con uno stile evocativo e sensibile, Véronique Brindeau ci accompagna in un viaggio affascinante attraverso la cultura giapponese con Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone, edito da Casadeilibri nella collana Porte d’Oriente. Questo libro, tradotto con grande cura da Lorenzo Casadei, rappresenta un raffinato omaggio alla filosofia estetica e spirituale dei giardini giapponesi. Arricchito da un ricco apparato iconografico, il libro si apre come un varco su un universo di armonia e contemplazione, offrendo al lettore un’esperienza che coinvolge tanto la vista quanto l’anima. Attraverso quattro saggi intrecciati tra loro in un’armonia narrativa, l’autrice esplora temi come la cerimonia del tè, l’arte del bonsai, i giardini abbandonati e l’integrazione paesaggistica tra natura e architettura sacra. Ogni capitolo diventa una finestra su un universo simbolico, in cui la riflessione e la contemplazione si fondono in un equilibrio perfetto tra poesia e rigore analitico. Il libro si configura così come un percorso di scoperta, in cui ogni pagina invita il lettore a perdersi e ritrovarsi, trasformando le parole in un ponte tra passato e presente, tra ciò che è visibile e ciò che sfugge all’occhio. La scrittura, intrisa di simbolismi e riferimenti culturali, si svela gradualmente, rivelando le molteplici sfumature di una tradizione che affascina da secoli. L’autrice trasporta l’essenza di un mondo in cui gesti semplici, come bere tè, prendersi cura di un bonsai o osservare il mutare delle stagioni, assumono un valore quasi sacro, capace di trasformare l’ordinario in straordinario. In questo viaggio, il lettore è invitato a riconoscere la bellezza nei dettagli più minuti, in quelle piccole attenzioni che, sommate, danno vita a un quadro complesso e vibrante. La meditazione proposta va oltre la semplice contemplazione: diviene uno strumento di conoscenza di sé, un invito a rallentare il ritmo quotidiano per abbracciare la calma e la serenità offerte dalla natura. Così, tra metafore eleganti e immagini evocative, il libro si erge come un manifesto di una filosofia di vita in cui arte, natura e spirito si fondono in un’armonia senza tempo. Il primo saggio, che dà il titolo alla raccolta, è dedicato al roji, il “sentiero di rugiada” che conduce al padiglione del tè. Apparentemente essenziale nella sua composizione, questo percorso è in realtà un microcosmo filosofico ispirato allo zen, un invito a rallentare e a entrare in sintonia con l’essenza delle cose. Brindeau descrive con precisione come ogni elemento, dalle pietre disposte in modo asimmetrico ai muschi, dalle lanterne al silenzio avvolgente, sia concepito per favorire il distacco dal frastuono quotidiano e accompagnare l’ospite verso uno stato di raccoglimento e contemplazione. Un ruolo chiave è rivestito dallotsukubai, il bacile per le abluzioni, che non è solo un oggetto funzionale, ma un simbolo di purificazione fisica e interiore. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e rinnovamento spirituale, come suggerisce l’incisione presente su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知), un monito alla semplicità e alla gratitudine. Il roji si suddivide in due parti: il sotoroji, il sentiero esterno che segna il distacco dalla quotidianità, e l’uchiroji, il tratto più intimo, che conduce all’introspezione. Non si tratta solo di una transizione fisica, ma di un percorso simbolico che guida verso una dimensione più profonda dell’essere.

  Il secondo saggio esplora l’arte del bonsai, una pratica in cui natura e creatività si fondono in un dialogo raffinato. Brindeau mostra come il bonsai non sia una semplice pianta in miniatura, ma una rappresentazione simbolica dell’universo, espressione di equilibrio e impermanenza. Centrale è il nebari, l’intreccio delle radici visibili, emblema di stabilità e connessione tra terra e cielo. L’autrice collega quest’arte alla filosofia del mono no aware, la consapevolezza della bellezza effimera, e agli stili neagari e bunjin, che esaltano leggerezza e asimmetria. Ogni bonsai diventa così un microcosmo di cura e contemplazione, dove il tempo e la natura si intrecciano armoniosamente. Nel terzo saggio, Brindeau ci conduce in un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un’atmosfera sospesa tra memoria e trasformazione. Qui, l’abbandono non è segno di trascuratezza, ma un atto di restituzione alla natura, in cui il tempo scorre con un ritmo diverso, più vicino all’essenza stessa del paesaggio. L’autrice esplora il concetto di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi, che celebra l’imperfezione e l’effimero. Il muschio, simbolo di resilienza, e la luce soffusa che filtra tra le fronde,diventano protagonisti di una narrazione che richiama la fragilità e la bellezza dell’impermanenza. Il libro si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove il concetto di shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Ai margini di un tempio secolare, il Monte Hiei si staglia all’orizzonte, integrato perfettamente nella composizione del giardino. La natura e l’elemento costruito si fondono senza soluzione di continuità, abbattendo ogni barriera tra interno ed esterno, tra visibile e invisibile. Questo raffinato equilibrio invita il visitatore alla contemplazione, suggerendo una continuità tra la bellezza terrena e quella cosmica. Ogni sguardo rivolto alla montagna diventa un atto di comunione con l’universo, un’esperienza in cui il tempo sembra dissolversi in un’armonia senza tempo. Attraverso uno stile poetico e rigoroso, Brindeau offre un’opera che è molto più di una semplice descrizione di giardini: è un invito a riscoprire il valore della lentezza, della contemplazione e della profonda connessione tra uomo e natura.

Il sentiero che porta alla casa del tè.

Il primo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, si concentra sul roji, il “sentiero di rugiada” che collega il mondo esterno al padiglione del tè. Questo spazio, apparentemente semplice, è in realtà un microcosmo che incarna la filosofia zen e il principio di rallentare per entrare in sintonia con l’essenziale. Brindeau descrive come ogni elemento del roji – dalle pietre irregolari ai muschi, dalle lanterne al silenzio che permea il percorso – sia progettato per favorire la transizione dal caos quotidiano alla quiete contemplativa del rito del tè.

Un ruolo centrale è svolto dal tsukubai, il bacino per le abluzioni, che rappresenta un momento di purificazione fisica e simbolica. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e di rinascita interiore, incoraggiata dall’incisione, su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知 ), un invito a riflettere sull’essenzialità e sulla capacità di apprezzare ciò che si possiede.

La suddivisione del roji in sotoroji (il sentiero esterno) e uchiroji (il sentiero interno) sottolinea una progressiva transizione sia fisica che spirituale: il primo invita a lasciarsi il mondo alle spalle, mentre il secondo accompagna verso un’introspezione profonda. Questo cammino è permeato dal concetto di Ichigo-Ichie (“un incontro, una volta sola”), che ricorda al lettore la preziosità dell’irripetibilità di ogni esperienza.

Brindeau non si limita a descrivere il roji come uno spazio fisico, ma lo trasforma in una metafora del viaggio interiore verso la consapevolezza e l’armonia, guidando il lettore in una riflessione che unisce estetica, spiritualità e natura.

Le radici: Paesaggio con bonsai

Il secondo saggio si addentra nell’arte del bonsai, un’antica pratica che unisce l’armonia naturale con la creatività umana. Brindeau analizza come il bonsai non sia una semplice pianta miniaturizzata, ma un’intera visione del mondo in miniatura, capace di esprimerne l’essenza attraverso la cura e l’attenzione del bonsai-ka.

L’autrice dedica particolare attenzione al nebari, l’intreccio delle radici visibili alla base dell’albero, simbolo di stabilità e connessione tra il mondo terreno e l’aria. Questo dettaglio, apparentemente tecnico, incarna una profonda riflessione sull’equilibrio tra opposti: forza e fragilità, permanenza e transitorietà.

Brindeau intreccia la narrazione con riferimenti alla pittura monocroma cinese e alla filosofia giapponese del mono no aware, sottolineando come l’arte del bonsai sia un’espressione della bellezza effimera e della sensibilità verso il ciclo vitale della natura. La descrizione degli stili neagari e bunjin, rispettivamente caratterizzati dall’esposizione delle radici e da una semplicità asimmetrica, amplifica l’idea che ogni bonsai racconti una storia unica, radicata nella tradizione ma aperta all’interpretazione personale.

Il giardino dimenticato di Komatsu

Nel terzo saggio, Brindeau esplora un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un microcosmo che riflette il concetto giapponese di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi. Qui l’abbandono non è percepito come trascuratezza, ma come una restituzione della natura al suo ciclo vitale.

Il muschio, simbolo di resilienza, e l’ombra, con la sua mutevolezza, diventano protagonisti di un dialogo che richiama la fragilità e l’impermanenza della vita. Brindeau arricchisce il saggio con riferimenti culturali, come il teatro Noh di Zeami e il celebre saggio Elogio dell’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, che approfondiscono il legame tra estetica, memoria e introspezione.

Questo giardino “dimenticato” si trasforma così in un luogo di meditazione, un rifugio che invita a riflettere sul rapporto tra uomo e natura, tra cura e abbandono.

Sul ciglio dell’Entsu-ji

Il volume si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove la filosofia dello shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Incorporando il MonteHiei all’orizzonte, il giardino dissolve i confini tra spazio naturale e costruito, creando un dialogo tra vicinanza e distanza, tra finito e infinito.

Brindeau esplora come la disposizione degli elementi del giardino inviti alla contemplazione e alla lentezza, trasformandolo in un luogo di connessione spirituale. Seduti ai margini del giardino, con lo sguardo rivolto alla montagna, ci si ritrova immersi in un’esperienza che trascende il quotidiano, riscoprendo l’interconnessione tra tutte le cose.


Il sentiero che porta alla casa del tè è molto più di una semplice raccolta di saggi: è un’opera che invita il lettore a un’esperienza sensoriale, intellettuale e spirituale. Véronique Brindeau, con la sua scrittura poetica e densa di significato, ci guida attraverso giardini che non sono solo luoghi fisici, ma anche metafore di un cammino interiore. Ogni pagina è un invito a rallentare, a osservare il mondo con occhi nuovi e a riflettere sull’essenza della vita.

Grazie alla sua profondità e alla sua bellezza, questo libro si rivolge tanto agli appassionati di cultura giapponese quanto a chiunque cerchi una pausa contemplativa nella frenesia del quotidiano. Un’opera da gustare lentamente, come un rituale, lasciandosi ispirare dal senso di armonia che ne emerge.

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IL SENTIERO

CHE PORTA ALLA CASA DEL TÈ

di Elisabetta Imperato

 

É uscito da poco per Casadeilibri, nella sezione Porte d’Oriente, “Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone”, una raccolta di quattro saggi di Véronique Brindeau sulla cerimonia del tè e sull’arte dei giardini giapponesi. Il testo, tradotto da Lorenzo Casadei che ne ha curato l’introduzione, è illustrato da un ricco apparato iconografico che accompagna il lettore in un magico viaggio nei quattro giardini più affascinanti del Paese del Sol Levante. Avevo da poco finito di leggere il bel libro di Pia Pera col titolo tratto dalla poesia della Dickinson “Al giardino ancora non l’ho detto” quando è giunta alla nostra redazione la bozza prossima alla pubblicazione della raccolta “Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del Giappone”, corredata da immagini straordinarie. Nell’introduzione si fa riferimento proprio agli scritti di Pia Pera e in particolare ad una recensione apparsa su Gardenia al Louange des mousses della Brindeau, tradotto da Casadei per la stessa casa editrice.

Il sentiero che porta alla casa del tè inizia con l’immagine di una soglia, una semplice porta di legno appena socchiusa, che divide la casa del tè dal flusso urbano e dai rumori della città. Come in un rito di passaggio, l’autrice ci accompagna attraverso il cammino del tè in una dimensione senza tempo, separata dal mondo urbano. È un sentiero che sembra uscito da un dipinto a inchiostro cinese del periodo Song dell’XI secolo. L’intero percorso è tracciato per agevolare l’approdo nell’interiorità. La meta non è altro che dentro di sé. Ogni tappa del percorso evoca una tensione verso l’altrove. La disposizione irregolare delle pietre predispone il cammino e richiede un’attenzione vigile, un passo giapponese dall’ andamento ritmico e musicale che rallenta il tempo. Si procede in uno spazio verde come in uno stato di sogno che ricorda le immagini che Hillmann, nel suo ultimo libro, definisce la via verde, immanente alla psiche, per salvare la terra dalla catastrofe ecologica. L’impressione che ne deriva è che sia sospeso lo scorrere delle stagioni, in una immersione iniziatica nel colore delle origini, cullati dal canto del vento tra i pini. Il muschio, che ricopre gran parte del cammino, attenua i rumori, e il bacino per le abluzioni, posto rasoterra, richiede il gesto umile dell’accovacciarsi che evoca la sacralità del rituale. Attraverso due sentieri si giunge al padiglione del tè per una cerimonia che ha nella sua essenza la purificazione dei cinque sensi.

Le radici: paesaggio con bonsai dà il titolo alla seconda tappa del percorso. La visione delle radici affioranti dei ficus e delle mangrovie (grandi vene della terra simili a vecchi giganti dai corpi nodosi) richiede uno sguardo verso il basso, gesto che si fa umile e ricorda l’accovacciarsi per accostarsi al bacino per le abluzioni. Da queste radici l’artigiano bonsaista trae ispirazione quando modella un piccolo albero, soprattutto olmi cinesi e alberi dell’ombrello, rispettando i precetti degli antichi pittori raccolti ne Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Anche in questo caso il rapporto tra la pittura monocroma a china guida la mano del bonsaista celebrando l’unione tra poesia, arte e natura. Lo sguardo del bonsai-ka si dirige “più in basso, sempre più in basso” per scoprire la geometria vivente degli alberi. E le radici si rivelano essere creature di passaggio tra la terra e il cielo, l’oscurità e la luce.

Il giardino dimenticato di Komatsu. È la terza tappa del viaggio iniziatico che ci conduce in un luogo segreto e nascosto dell’isola dove domina il muschio, sposo dell’ombra. Ci incamminiamo in uno spazio-tempo sospeso e distante che sembra precedere l’apparizione dell’uomo sulla terra. L’ombra, ora continua ora discontinua, muta di densità nell’aria immobile, sotto l’effetto della luce filtrante, manifestandosi come sostanza fluida che ancora una volta viene paragonata agli effetti della pittura ad inchiostro a china. Il lettore è immerso in un paesaggio crepuscolare sotto un tetto di nubi. Lo spaesamento che ne deriva ha a che fare con l’oblio e con l’abbandono in cui per lungo tempo il giardino si è ritrovato separato dal mondo.

Sul ciglio dell’Entsu-ji. Nell’ultima tappa del nostro percorso raggiungiamo il primo tempio buddista situato in uno dei giardini più belli a nord est di Kyoto, progettato con intento pittorico per incorniciare il monte Hiei. Si tratta di uno scenario preso in prestito (shakkei), artificio tipico della cultura giapponese con cui il giardino amplia i suoi confini spingendo altrove lo sguardo del visitatore fino a catturare la montagna, inglobando il lontano nel vicino, oltre il gruppo dei cedri. Anche in questo caso, il tratto di cielo che si apre tra i pilastri che sostengono la tenda del tempio, rimanda all’estetica del vuoto dei dipinti a china. La costruzione confonde il senso delle distanze, cosicché si percepiscono cose vicine anche se lontane, cose lontane anche se vicine. Nel suggestivo gioco dello sguardo, uno specchio d’acqua può catturare un pezzo di cielo mentre la lontananza spaziale del monte, al contempo, si fa portatrice di una distanza temporale. La visione ci trasporta lontano, nel luogo di nascita del buddhismo, dove i monaci dal ritorno dalla Cina fondarono il primo monastero all’inizio del IX secolo.

L’attenzione ai dettagli e all’infinitamente piccolo (col muschio si può esprimere tutto, si legge nel libro), l’incontro alchemico tra l’acqua, l’aria e il fuoco, evocato dalla cerimonia del tè, la musica del vento tra le canne di bambù; tutti questi elementi trascinano il lettore in un’atmosfera fiabesca, offrono un rifugio dalla frenesia della città, dirottando l’attenzione, tanto del viaggiatore quanto del lettore, al presente del qui e ora. Ci sono tante ombre in questi giardini come in Perfect days di Wenders. C’è la stessa ritualità presa a prestito dai ritmi della natura. E ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo anche qui, come dice Hirayama alla nipote Niko nel giardino del santuario. Per altra via. Anche nel volume 1 della saga Kill Bill di Quentin Tarantino, quando la leggera porta di legno e carta di riso scorre, si supera una soglia metafisica. Lo scenario cambia e appare un tranquillo giardino d’inverno dove, in un simile spazio simbolico rovesciato, la neve scende leggera e densa nel buio della notte. Il giardino, nel bellissimo libro di Véronique Brindeau, diventa strumento di conoscenza, cammino che porta alla visione dell’essenza, stato di estrema chiarezza, unione perfetta tra corpo e mente che realizza quella armonia alla quale da sempre tendono tutte le arti giapponesi.

C’era una volta nel Deccan

Mary Frere

C’era una volta nel Deccan

Tre storie popolari del sud dell’India 

della raccolta Old Deccan Days tradotte dal telegu.

Un viaggio alla scoperta del sud dell’India, delle sue tradizioni e culture più antiche. Ancora oggi, le storie raccontate da Anna rappresentano un risorsa preziosa sia per antropologi, linguisti e umanisti, che per gli amanti e appassionati dell’India. Questa piccola selezione di racconti, tradotti per la prima volta in italiano.

 

Mary cover (11 August 1845 – 26 March 1911) soprannominata May, era la maggiore dei cinque figli di Henry Bartle Frere e di Catherine (morta nel 1899), figlia del tenente generale Sir George Arthur.

Il padre di Mary prestò servizio nell’amministrazione coloniale e nel 1862 fu nominato governatore di Bombay. Nel 1868, Frere pubblicò Old Deccan Days che trascrive e riordina i racoonti originariamente tasmessi per via orale che la domestica Anna Liberata de Souza, le aveva raccontato in inglese.

Formato  13,5 x 21 cm.

Pagine  96 illustrato

Prezzo  12

ISBN-13 -979-12-80146-19-9

Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del giappone

 

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Véronique Brindeau l’autrice de L’elogio del muschio e di Hanafufa il gioco dei fiori ci accompagna in quattro perscorsi tra giardini del Giappone.:

Il sentiero che porta alla casa del tè 

Le radici: paesaggio con bonsai

Il giardino dimenticato di Komatsu

Sul ciglio dell’Entsū-ji

 

Il sentiero che porta alla casa del tè – titolo di questa raccolta – è l’immagine perfetta della Via: la prepara e la riassume  […] Il cammino del tè è attenzione e presenza. Passo dopo passo, ad ogni passo si è già alla meta, e i piedi calpestano la Terra pura (jo do), quel regno della grazia che per lo zen si apre nel qui ed ora.  

Anche se rappresenta un pellegrinaggio montano, questo cammino spesso è davvero corto – come brevi sono i quattro scritti qui riuniti – ma è un vero viaggio quello richiesto al visitatore e nel nostro caso al lettore, invitato a imboccare un sentiero che potrebbe portare al di là del tempo e dello spazio.

Recensioni

Formato 17 x 24 cm. 

Pagine  96 illustrato

Prezzo  21

ISBN-13 – 979-12-80146-15-1

Fiabe e leggende del Giappone. Antologia di scritti di Yanagita Kunio

Cover Fiabe Kunio

Un viaggio nel cuore del folklore nipponico: un’antologia con racconti inediti che svela i misteri e le meraviglie della cultura giapponese, attraverso storie di spiriti, demoni e leggende radicate nel profondo della tradizione orale

Yanagita Kunio (1875-1962) è considerato il padre degli studi sul folklore giapponese (minzokugaku) e grazie al suo operato numerose fiabe della tradizione orale hanno per la prima volta trovato forma scritta. Lo stile impiegato da Yanagita, poi, è ricco ma al contempo semplice e costituisce di per sé uno deimotivi del grande successo riscosso dai suoi scritti dentro e fuori il Giappone. Il presente volume intende presentare al lettore italiano un’antologia degli scritti di da Yanagita: una rosa delle più belle fiabe, leggende e altri scritti.Le fiabe: i temi sono vasti e disparati: da storie di bambini di nascita meravigliosa a racconti su demoni, spiriti e altre creature fantastiche. Non mancano poi storie di matrimoni tra specie diverse (umano/non-umano) e di personaggi mitologici. (traduzioni di Diego Cucinelli) Tra gli altri scritti presentati; La vita tra i monti (traduzioni di Ikuko Sagiyama)Le origini del daishikō (traduzione di Francesca Fraccaro)Il corniolo giapponese; Le vacanze in montagna (traduzioni di Noemi Peroni)Storie e leggende di pesci con un occhio solo(traduzione di Isabella Dionisio)

Recensioni

Recensioni AIkido

Corriere della sera – 7

13 giugno 2025

Il discendente dei samurai: «Spada e meditazione sono la stessa cosa. Ogni mattina recito un giuramento»

di Costanza Rizzacasa D’Orsogna

Il giapponese Hiroshi Tada è l’ultimo discepolo del fondatore dell’aikido, disciplina che educa alla massima padronanza di corpo e mente. «A 94 anni rinnovo l’impegno a vivere da vero uomo».  image

Quante vite può avere una sola persona? Nato a Tokyo nel 1929, discendente di una famiglia di samurai del Tredicesimo secolo dell’isola di Tsushima, prefettura di Nagasaki, nell’estremo sud del Giappone, Hiroshi Tada è forse l’ultimo discepolo vivente, e il più autorevole, di Morihei Ueshiba, leggendario fondatore dell’aikido, arte marziale che punta a raggiungere la massima padronanza e unità di corpo e mente, superando l’aspetto fisico e atletico per diventare un viaggio di crescita personale. Tada, che detiene il grado di 9° Dan di aikido, attualmente il più elevato, è shihan (maestro di maestri) dell’Honbu Dojo di Tokyo e shihan emerito delle Università di Waseda e di Tokyo, e in una lunghissima carriera ha contribuito a diffondere l’aikido in Europa e nel mondo. Lo scorso novembre, in occasione dei sessant’anni dell’associazione Aikikai d’Italia, da lui fondata, è tornato nel nostro Paese per uno stage-evento a Bologna cui hanno partecipato oltre mille persone. Sempre l’anno scorso è uscita in Italia la sua autobiografia, Vivere nell’aikido (CasadeiLibri Editore), un testo ricchissimo di storia e filosofia. In questa intervista, Tada spiega perché l’aikido, che supera il concetto di combattimento, è l’arte della pace. La ricerca di una vita in armonia, con noi stessi e gli altri.

Che cosa comporta essere discendente di una famiglia di samurai? Che insegnamenti le sono stati impartiti da bambino?
«Dal periodo Meiji (1868-1912) fino al 1945, la legge giapponese prevedeva la distinzione in “nobili”, “samurai” e “cittadini comuni”. Nel salone della nostra casa, la nicchia ornamentale (tokonoma) era decorata con un elmo forgiato dal capostipite dei Myochin, importante famiglia di armaioli, e numerosi archi e frecce. Ogni anno, in occasione degli equinozi di primavera e d’autunno, venivano esposti i ritratti degli avi, e dal vicino santuario di Kumano arrivava un sacerdote shintoista a recitare le liturgie per la festa degli antenati. A sei anni venni introdotto da mio padre all’arte del kyudo, il tiro con l’arco giapponese, secondo la scuola tradizionale di famiglia, uno stile molto raro insegnato a Tsushima ai samurai di alto rango che guadagnavano più di 500 koku di riso all’anno (un koku, circa 150 kg di riso, era considerata la quantità sufficiente a nutrire una persona per un anno, ndr). Nel retro della nostra casa c’era un makiwara, il bersaglio. Ho appreso i rudimenti con il mezzo arco nero laccato donatomi da mio padre. Quando andavo alle elementari ho iniziato a fare pratica con la spada. In seguito ho studiato con il fondatore del karate moderno, Gichin Funakoshi. Prima del 1945, nel sistema scolastico giapponese, le arti marziali (budo) erano una disciplina obbligatoria, con relativi esami. Dopo la Guerra, la materia fu sospesa, mentre oggi è di nuovo presente. Quello che ho imparato nell’infanzia da mio padre e da mio nonno è stata la bussola che ha guidato la mia vita».

Cosa l’ha spinta a dedicarsi all’aikido? E che cos’è l’aikido?
«Sono convinto che fosse scritto nel destino fin dalla mia nascita. L’aikido è una Via nata dagli insegnamenti che Morihei Ueshiba, suo fondatore, ricevette da Sokaku Takeda, maestro di daitoryu, antica arte marziale del feudo di Aizu praticata dai samurai di alto rango. Ma è anche il risultato della pratica religiosa di Ueshiba, sublimata dall’espressione “unione spirituale del divino con l’uomo”. Avevo 14 anni quando sentii parlare per la prima volta di Ueshiba, considerato il miglior cultore di arti marziali della nostra epoca. Nel 1950 ne divenni allievo. Oggi personaggi come lui sono rari, ma centinaia di anni fa, i fondatori delle arti marziali giapponesi erano o adepti shintoisti, buddhisti o taoisti, o samurai che oltre a esercitarsi nelle arti marziali si ritiravano in templi e santuari per svolgere pratiche religiose. Un altro dei miei maestri è stato Tenpu Nakamura, fondatore dello yoga giapponese».

Perché chi praticava arti marziali si ritirava nei templi?
«La loro attività era paragonabile ai metodi del raja yoga indiano, la “scienza della concentrazione spirituale”, pratica che punta all’unione della coscienza universale con quella individuale. Nelle arti marziali tradizionali giapponesi, la spada e la meditazione sono considerate la stessa cosa, poiché il potere che si palesa grazie alla pratica meditativa si manifesta allo stesso modo nell’arte della spada. Raggiungendo, spiegavano i filosofi del passato, un modo di vivere assoluto che trascende il mondo della contrapposizione e del confronto».

Anche le donne si dedicavano alle arti marziali?
«Dal periodo Edo (1603-1868), le donne della classe dei samurai praticavano l’arte della spada corta, tecniche a mani nude e simili. Fino alla Seconda guerra mondiale, poi, e durante il periodo Showa (1926-1989), nelle scuole femminili si praticava l’arte del naginata, l’alabarda giapponese. Quando divenni allievo di Ueshiba c’erano già donne che praticavano l’aikido. Essendo una disciplina praticata dai samurai di alto rango, senza combattimenti a terra ma eventualmente tecniche a coppie, dove una persona è inginocchiata sul tatami e l’altra rimane in piedi, l’aikido si addice alla pratica femminile. Quando iniziai a tenere corsi di aikido in varie città italiane, negli anni Sessanta, le donne, da sole o con i mariti, erano già numerose».

C’è stato da subito un grande entusiasmo per l’aikido, nel nostro Paese?
«Sì. Nel dojo del Maestro Ueshiba conobbi la scultrice Haru Onoda. Fu lei a chiedermi se volessi occuparmi dell’aikido in Italia. Arrivai a Roma nel 1964, e iniziai a tenere seminari di aikido per il Ministero degli Interni. Fondai così l’Aikikai d’Italia, e in seguito venni invitato in Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna».

Quali sono i principi dell’aikido? E cosa possono insegnare le arti marziali a una società ipercompetitiva come la nostra?
«Un insegnamento dell’aikido è quello di vivere in maniera positiva. Questa positività ha due significati, relativo e assoluto. Con lo spirito positivo relativo, nei momenti di sconforto non ci lasciamo andare, e reagiamo impegnandoci, determinati a farcela. Lo spirito positivo assoluto, invece, fa sì che il nostro cuore non cada preda delle emozioni, e rimanga calmo e distaccato. Nelle arti marziali si coltivano la serenità e il distacco, mantenendo il cuore trasparente e l’io individuale e i pensieri negativi assenti. Il Maestro Ueshiba diceva che l’amore è alla base delle arti marziali. Si riferiva all’amore assoluto che permea l’Universo».

Che cos’è l’energia vitale, il ki? E cosa vogliono dire “attaccamento” e “concentrazione”, nell’aikido e nella vita?
«“Ki” è un termine fondamentale nelle culture dell’Asia orientale, simile al prana (forza vitale) dello yoga. È definito come ciò che riempie lo spazio tra cielo e terra, il fondamento dell’universo, ma anche come l’energia alla base della forza propulsiva della vita. Quando ci impegniamo intensamente in qualcosa, il nostro atteggiamento può essere di “attaccamento” o di “concentrazione”. La concentrazione è la condizione in cui il corpo e lo spirito si affinano ma l’animo non si fa catturare da ciò con cui si relaziona. Nell’altro caso, lo spirito è carpito da quell’oggetto, finendo per rimanervi legato: uno stato di immobilità del cuore, e quindi di debolezza. Concentrazione significa riflettere le cose come uno specchio, per questo si rimane liberi. L’attaccamento è l’origine di tutti i problemi».

Nonostante l’età, lei insegna ancora. Qual è il suo segreto?
«Continuare a praticare con cura quanto ho appreso dai miei maestri. Ogni mattina, appena alzato, recito il giuramento quotidiano: “Oggi, senza paura, rabbia, tristezza, con onestà, gentilezza e gioia, con forza, coraggio e convinzione, adempiendo ai compiti della mia vita, senza mai smarrire amore e pace, giuro solennemente di vivere da vero uomo”. Inoltre, pratico tecniche di respirazione, unificazione dello spirito e del corpo, e la sera, prima di dormire, di autosuggestione. Molti dei miei studenti hanno superato gli ottant’anni».

Ci sono atleti in cui si riconosce in discipline che non sono le arti marziali?
«Tetsuharu Kawakami, campione dei Yomiuri Giants di baseball definito “il Dio dei battitori”, diceva di vedere la palla che gli veniva scagliata come fosse ferma in aria, ed era quindi sempre in grado di colpirla. La sua era una condizione mentale di serenità e distacco. Allo stesso modo, il lottatore di sumo Hakuho Sho, commentando una vittoria, spiegava di essersi trovato in una condizione simile a uno stato di meditazione profonda, dove tempo e spazio erano come rallentati e i movimenti dell’avversario perfettamente leggibili».

Nel 1942, poco più che decenne, lei era in Manciuria. Cosa ricorda della Cina di allora?
«Era il decimo anniversario dell’istituzione, da parte dell’impero giapponese, dello Stato del Manciukuò. C’era la guerra, ma era ancora possibile viaggiare. Quelle immense pianure, la serenità della gente. Le scene che vedevo dal finestrino del treno espresso “Asia” in servizio da Xingjing a Dalian erano di un continente maestoso. Provai una grande emozione nel riconoscere i luoghi di cui, da bambino, avevo letto nei libri di letteratura cinese: Il viaggio in Occidente di Wu Cheng’en, le Cronache dei Tre Regni di Chen Shou, i testi di Confucio, di Mencio, di Laozi e di Zhuangzi.»

All’epoca delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, aveva 15 anni. Che ricordo ha di quei giorni?
«Nel 1945 vivevo con i miei nonni e mia zia nella casa di famiglia a Tokyo. Ricordo il bombardamento del 10 marzo, che rase al suolo il centro della città e colpì anche la mia scuola, e quello del 28 maggio, che distrusse il mio quartiere. Il 6 agosto giunse la notizia che una potentissima bomba era stata sganciata su Hiroshima. Quella sera mia zia rientrò dal lavoro: “È un’atomica”, disse. ”Così finisce la guerra”. Qualche giorno dopo, il 15 agosto, ascoltai alla radio la voce dell’imperatore. Colsi la frase “sopportando l’insopportabile, tollerando l’intollerabile, desidero che si realizzi la pace per tutto il mondo”. Pensai che il mio Paese aveva rischiato di scomparire. È terribile che ottant’anni dopo la storia sembri avviata a ripetersi. L’azione del “ki” può essere positiva o negativa. Costruire richiede tempo, per distruggere basta un istante. Credo che la nostra civiltà si trovi a un bivio. Spero che gli uomini superino un approccio di competizione, così che il genere umano possa ulteriormente progredire».
(traduzione di Paolo Calvetti)

Repubblica – il venerdi

3 maggio 2024

Hiroshi Tada è uno dei più autorevoli discepoli del maestro Ueshiba Morihei, a sua volta grande maestro di arti marziali e fondatore dell’aikido, disciplina che mira a raggiungere la massima padronanza e unità di corpo e mente. Nato nel 1929 a Tokyo in una famiglia di samurai, Tada racconta oggi la sua vita avventurosa e profondamente spirituale in un’appassionante autobiografia che è appena stata tradotta e pubblicata in Italia da CasadeiLibri, piccola e ottima casa editrice specializzata in saggistica e letteratura orientali. (t.l.p.)

Corriere della sera – La Lettura 17

Inchiostro di Cina

di Marco Del Corona

Color rosso Manciuria

«Viaggiava a quasi cento chilometri all’ora» il treno per Dalian nella Manciuria del 1942, ampia porzione della Cina occupata dai giapponesi. Ricorda Hiroshi Tada (Tokyo,1929), maestro d’aikido dal ’64 attivo in Italia, che «il paesaggio visto dall’Asia Express era un vero “tramonto rosso manciuriano”».

II memoir s’intitola appunto Vivere nell’aikido

(traduzione di Koji Watanabe, revisione di Lorenzo Casadei,

ROCKERILLA 526

GIUGNO 2024 · 01/06/2024

Hiroshi Tada, classe ’29, discepolo del Maestro Ueshiba Morihei, è il fondatore dell’Aikikai d’Italia, Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese. La sua autobiografia, presentata da CasadeiLibri in un’edizione curata e ricca di illustrazioni, è un romanzo di formazione di un altro mondo, che rivela come crescita personale e scoperta del sé possano essere conquistate attraverso l’unità di corpo e mente. Per appassionati e curiosi dotati di almeno un’infarinatura in materia.

Alessandro Hellmann

Sans Fiction

Il rischio di apprendere un’arte marziale leggendo i libri: “Quale che sia la tecnica o la scuola, seguire un Maestro eccelso, non distrarsi e dedicare tutto se stessi alla pratica. Questa è la via corretta per migliorare. II) Nei testi, spesso, vengono riportati concetti che riguardano il vertice della Via. Lasciarsi distrarre da concetti che stanno troppo in alto viene detto “Essere influenzati negativamente dai segreti”. Si dice kyakkashōko e con ciò si intende che bisogna sempre tenere presente a che punto si è nella pratica e “mantenere i piedi per terra”.

La differenza tra bene e male: “Un’altra volta, a un uomo che affermava di non saper distinguere il Bene dal Male, l’Anziano disse: – La verità è che ciò non è possibile. Una cosa del genere in realtà non esiste. Siccome la persona pareva non essere d’accordo, l’Anziano aggiunse – La bellezza e la bruttezza, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, il bene e il male, sono tutti la stessa cosa e sono l’aspetto di una manifestazione. C’è però anche l’aspetto delle cose non manifestate. Il “mezzo” del Giusto mezzo, il “Nirvana” del Buddha, la “Alta pianura celeste” dello shintō e, come ci dice la frase “La mia Via è percorsa da un unico principio” di Confucio, si tratta della vera natura del luogo in cui dimora l’Uno. Lì non vi è Bene e Male, vi regna l’assoluta uguaglianza ed equità, viene detto Vuoto, Nulla, Ingresso nel Nirvana, Origine. Il praticante avanzato deve entrare almeno una volta in questo territorio. Solo dopo aver raggiunto questo luogo può sgorgare, come da una sorgente, la capacità di cogliere il Discrimine, altrimenti non è possibile comprendere la vera natura del Bene e del Male”.

È in libreria Aikido ni ikiru. Vivere nell’aikido di Tada Hiroshi (CasadeiLibri 2024, pp. 400, € 25,00, con traduzione di Koji Watanabe).

Tada Hiroshi nato a Tokyo il 14 dicembre 1929 è un artista di primissimo piano del panorama marziale giapponese e mondiale. Discendente di una famiglia di samurai dell’isola di Tsushima, è 9º dan di aikidō, shihan dell’Aikidō Honbu Dōjō; shihan emerito dell’Aikidōkai della Waseda University e della University of Tōkyō; Presidente dell’Aikidō Tadajuku e Direttore didattico emerito dell’Aikikai d’Italia. Nel 2019, dopo 55 anni di attività in Italia, il Presidente della Repubblica Italiana gli ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. In Francia è stato recentemente pubblicato il suo libro L’énergie du souffle – Ki No Renma, Hachette, 2023.

L’autore ha seguito i principi insegnati da Ueshiba Morihei, il fondatore dell’Aikido, un percorso volto a raggiungere l’armonia tra corpo e mente, sviluppando l’energia vitale. Nel corso degli anni, ha incontrato diversi maestri, tra cui Nakamura Tenpū, promotore dell’unione mente-corpo. La sua dedizione ha contribuito notevolmente alla diffusione dell’Aikido a livello globale, con la creazione di dojo e organizzazioni nazionali come l’Aikikai Italia.

Pur riconoscendo i propri limiti, ha deciso di condividere la sua storia per onorare i predecessori e guidare le future generazioni nell’arte dell’Aikido. Questa autobiografia non è solo un’esplorazione dell’arte marziale, ma anche un viaggio interiore alla ricerca di sé e della propria eredità, offrendo un’esperienza che va oltre l’allenamento fisico, trasformando la pratica dell’Aikido in un cammino di crescita personale.

Un viaggio spirituale che ci porta a scoprire la natura umana attraverso i tanti modi di apprendere e l’umiltà necessaria per farlo bene.

Carlo Tortarolo

Il Maestro Ueshiba Morihei

Un giorno, dopo l’allenamento del mattino, lasciai il Dōjō Ueshiba e giunto sul grande viale di Nukebenten vidi una coppia, l’uno vestito con abiti
tradizionali e l’altro in divisa da studente. Presumibilmente erano scesi dal tram appena passato. In quel momento il signor Kikuchi Tokio mi disse: “È tornato Ō Sensei. Tada, vieni con me.” e cominciò a correre. Al che anch’io mi misi a correre dietro di lui.

Il signor Kikuchi, dopo il saluto di buon rientro, mi presentò al Maestro: “Maestro, lui è il signor Tada, un nuovo iscritto.” Lo salutai e quando alzai il capo, il Maestro mi fissò intensamente, poi tolse il cappello e, con un inchino straordinariamente educato verso di me che ero in divisa scolastica, disse: “Sono Ueshiba”. In quel momento, alla presenza del Maestro, di cui da tempo avevo sentito parlare come di un grande esperto, provai una particolare emozione mai sperimentata prima di allora. Fu una strana sensazione, come se un desiderio covato da tanto tempo, ma a cui ancora non ero riuscito a dare una forma precisa, mi si fosse palesato davanti agli occhi.

In altezza il Maestro arrivava appena sopra il mio petto. Aveva un viso dai tratti scolpiti, zigomi alti e un grande naso. I suoi grandi occhi limpidi avevano un colore particolare, sembravano viola, o di un blu profondo. Un lungo pizzetto bianco scendeva davanti fino al petto.

Guardandolo da vicino ebbi la sensazione di averlo già visto da qualche parte. Mi venne subito in mente il grande volto del drago dipinto sul kakejiku appeso sopra il kamiza del tokonoma nel Dōjō Ueshiba in cui ero stato fino a poco fa. Lo seppi più tardi, ma quel volto di drago era stato dipinto da un famoso pittore che appena vide il Maestro Ueshiba fu preso dalla commozione e realizzò il dipinto seduta stante. Lo studente con lui era il signor Kamizono della facoltà di Scienze e Ingegneria dell’Università Waseda. Li seguimmo fino a che non imboccarono il viottolo che dal grande viale portava alla casa degli Ueshiba.

La pratica con il Maestro Ueshiba Morihei

La pratica del mattino del giorno dopo con il Maestro Ueshiba Morihei iniziò con una devota invocazione rivolta alle divinità. Il tono di voce alto, ma straordinariamente limpido del Maestro si diffuse in tutto il dōjō, avvolgendo con la sua vibrazione tutti coloro che erano posizionati in fila.

Dopo il torifune e il furutama, il Maestro, tirandosi su le lunghe maniche del vestito, si avvicinò agli allievi porgendo loro la mano con un gesto naturale. Gli allievi, come attirati da una calamita, si alzavano ad afferrare il braccio del Maestro, ma un istante dopo erano già a terra. Dopo averli proiettati uno dopo l’altro si avvicinò a me e mi porse ugualmente la mano come per invitarmi. Mi alzai e afferrai con tutte le mie forze il braccio del Maestro, ma immediatamente dopo stavo già rotolando a terra. Durante tutto il tempo il Maestro non pronunciò una parola.

La pratica con il Maestro iniziava sempre in questo modo. Successivamente, a coppie, ripetevamo, cercando di riprodurre il più fedelmente possibile il movimento del Maestro e la sensazione provata.

Dopo un po’ il Maestro disse: “Vi prego di ascoltare le mie parole”. Mi guardai in giro sorpreso per vedere se fosse arrivata una persona speciale, ma nel dōjō eravamo solo noi studenti, il signor Kikuchi Ban, iscrittosi recentemente, e altri giovani praticanti.

Il Maestro parlava sempre così, in modo estremamente educato. Prima della guerra, nel Dōjō Ueshiba venivano a praticare persone che rappresentavano il Paese tra le quali alcuni membri della famiglia imperiale, nobili, generali dell’esercito, ammiragli della marina e uomini politici. Ma non era solo questo.

La parola è Forza. Il linguaggio educato, la cura attenta nell’insegnamento, erano alla base della grande dignità del Maestro e ciò si rifletteva direttamente nelle sue abilità marziali.

All’epoca aveva 66 anni, ma i suoi movimenti apparivano più vitali e vigorosi di quelli di qualunque giovane. Quando si praticava con il Maestro tutto il dōjō era avvolto da un’atmosfera particolare. Era come se l’intera sala e tutte le persone presenti cominciassero a respirare insieme, all’unisono con l’attività del Maestro. Il giorno in cui partecipai alla pratica percepii che il Maestro Ueshiba era giunto a uno stadio molto avanzato. Potrà sembrare un’espressione strana e poco rispettosa nei confronti del Maestro, ma è da intendersi nel seguente modo.

Nei racconti che in passato circolavano tra i compagni dell’università Waseda si diceva che il Maestro Ueshiba fosse un artista marziale che usava tecniche che potevano essere applicate in un combattimento reale derivanti dal jūjutsu antico, del tutto diverse dalle arti marziali moderne, e che possedesse anche delle misteriose capacità. Era come se un grande esperto del Giappone antico, che la sensibilità moderna non era più in grado di comprendere, fosse apparso nel mondo contemporaneo.

Neve su foglie vermiglie

Neve su foglie vermiglie

di Dōgen Zenji

 

Poesie scelte del maestro zen Dōgen commentate da Shohaku Okumura

calligrafie di Norio Nagayama

Traduzione di Michel Gauvain e Lorenzo Casadei

Il candore della neve rappresenta l’unicità (l’unità) mentre i colori vivaci delle foglie la molteplicità. Ogni albero ha la sua natura unica, per forma e altezza, con i suoi fiori e frutti ed i colori delle sue foglie. Unità e molteplicità convivono. Come possiamo esprimere questa compenetrazione delle realtà assoluta con la realtà convenzionale. Questo è uno dei punti essenziali dello studio e della pratica del Dharma. Come esprimere l’unità di tutte le cose nella miriade di fenomeni che incontriamo? E questa è la ragione per prendere l’espressione a titolo della raccolta.

Recensioni

Vivere nell’Aikido

AIKIDŌ NI IKIRU, Vivere nell’aikidō di HIROSHI TADA

L’autobiografia del più grande maestro vivente di Aikido. Fondatore dell’Aikikai d’Italia con centinaia di allievi e allievi di allievi in tutta Europa e nel Mondo.

“Sono nato nel 4° anno Shōwa (1929). Dalla serenità degli inizi del periodo Shōwa, ho attraversato il suo periodo turbolento caratterizzato dal conflitto bellico. Diventato maggiorenne, come attirato da un filo invisibile, incontrai gli insegnanti che sarebbero diventati i miei Maestri di tutta la vita. Erano il Maestro Funakoshi Gichin del Karatedō, il Maestro Ueshiba Morihei, fondatore dell’Aikidō, il Maestro Ueshiba Kisshōmaru, il Maestro Nakamura Tenpū del metodo di unificazione di corpo e mente (Shinshintōitsuhō) e il Maestro Hino Masakazu e sua moglie del dojo Ichikūkai, eredi degli insegnamenti del Maestro Yamaoka Tesshū. Tra i preziosi insegnamenti di questi Maestri, ci sono anche quelli attraverso il contatto diretto, difficili da ricevere al giorno d’oggi. Ho ricevuto inoltre un grande supporto da amici e membri dell’Aikikai dell’epoca nel diffondere l’Aikido in Giappone e in Europa, e nel fondare dojo e Aikikai nazionali.Molte di queste persone non sono più tra noi. Per ripagare i loro sforzi e nella speranza di essere di qualche aiuto ai giovani artefici e responsabili di ciò che verrà, ho deciso di scrivere queste pagine, consapevole della mia inesperienza e inadeguatezza”

Recensioni

IL SŪTRA DELLE MONTAGNE E DELLE ACQUE

Schermata 2022-10-22 alle 19.29.00

Shohaku Okumura

IL SŪTRA DELLE MONTAGNE E DELLE ACQUE

Una guida pratica al Sansikyo del Maestro Dōgen

Una guida magistrale del maestro Okumura al misterioso Sansuikyō del maestro Dōgen qui presentato nella traduzione di Carl Bielefeldt con i contributi di Gary Snyder e Isshō Fujita.

Sansuikyō 山水經 è un’espressione semplice. Sansui 山水 significa “montagne e acque” kyō 經 “il sūtra” o “i sūtra”.

Un modo di intendere questo titolo potrebbe essere “sūtra sulle Montagne e sulle Acque”, ma Dōgen sta

dicendo che le montagne e le acque sono esse stesse dei sūtra ed espongono incessantemente l’insegnamento del Buddha.

Le montagne e le acque di questo momento sono la manifestazione della grande via degli antichi buddha.

A cura di Shōdō Spring Traduzione di Michel Gauvain

Formato: 17 x 24 cm. 

320 pagine 

ISBN: 9791280146-05-2 

€ 23,00

HANAUJŌ I fiori della compassione

di Aoyama Shundō

Scritti e opere di una delle più autorevoli maestre zen viventi.

“Circondata dai fiori che mi hanno mostrato i loro infiniti aspetti al mattino, alla sera e lungo le quattro stagioni, giocando e crescendo in costante dialogo con loro, assaporo anche oggi la felicità di poter vivere tra i fiori.”

Il Sermone di Ciò-che-è-inanimato (mujō),
viene udito da Ciò-che-è-animato (ujō)
Il vento attraversa il bosco freddo e le foglie riempiono il cortile.

Daichizenji

Traduzione dal giapponese di Koji Watanabe e stampa  realizzate grazie al contributo dell’UBI

Formato: , Pagine: 176, ISBN: 979-12-80146-02-1 Prezzo: 21,00

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Recensione Wall Street International

Recensione LT