Quaderni Asiatici 149 – marzo 2025
Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone di Véronique Brindeau, Casadeilibri editore,
pagine 96 illustrato, prezzo euro 21
ISBN-13 – 979-12-80146-15-1
Con uno stile evocativo e sensibile, Véronique Brindeau ci accompagna in un viaggio affascinante attraverso la cultura giapponese con Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone, edito da Casadeilibri nella collana Porte d’Oriente. Questo libro, tradotto con grande cura da Lorenzo Casadei, rappresenta un raffinato omaggio alla filosofia estetica e spirituale dei giardini giapponesi. Arricchito da un ricco apparato iconografico, il libro si apre come un varco su un universo di armonia e contemplazione, offrendo al lettore un’esperienza che coinvolge tanto la vista quanto l’anima. Attraverso quattro saggi intrecciati tra loro in un’armonia narrativa, l’autrice esplora temi come la cerimonia del tè, l’arte del bonsai, i giardini abbandonati e l’integrazione paesaggistica tra natura e architettura sacra. Ogni capitolo diventa una finestra su un universo simbolico, in cui la riflessione e la contemplazione si fondono in un equilibrio perfetto tra poesia e rigore analitico. Il libro si configura così come un percorso di scoperta, in cui ogni pagina invita il lettore a perdersi e ritrovarsi, trasformando le parole in un ponte tra passato e presente, tra ciò che è visibile e ciò che sfugge all’occhio. La scrittura, intrisa di simbolismi e riferimenti culturali, si svela gradualmente, rivelando le molteplici sfumature di una tradizione che affascina da secoli. L’autrice trasporta l’essenza di un mondo in cui gesti semplici, come bere tè, prendersi cura di un bonsai o osservare il mutare delle stagioni, assumono un valore quasi sacro, capace di trasformare l’ordinario in straordinario. In questo viaggio, il lettore è invitato a riconoscere la bellezza nei dettagli più minuti, in quelle piccole attenzioni che, sommate, danno vita a un quadro complesso e vibrante. La meditazione proposta va oltre la semplice contemplazione: diviene uno strumento di conoscenza di sé, un invito a rallentare il ritmo quotidiano per abbracciare la calma e la serenità offerte dalla natura. Così, tra metafore eleganti e immagini evocative, il libro si erge come un manifesto di una filosofia di vita in cui arte, natura e spirito si fondono in un’armonia senza tempo. Il primo saggio, che dà il titolo alla raccolta, è dedicato al roji, il “sentiero di rugiada” che conduce al padiglione del tè. Apparentemente essenziale nella sua composizione, questo percorso è in realtà un microcosmo filosofico ispirato allo zen, un invito a rallentare e a entrare in sintonia con l’essenza delle cose. Brindeau descrive con precisione come ogni elemento, dalle pietre disposte in modo asimmetrico ai muschi, dalle lanterne al silenzio avvolgente, sia concepito per favorire il distacco dal frastuono quotidiano e accompagnare l’ospite verso uno stato di raccoglimento e contemplazione. Un ruolo chiave è rivestito dallotsukubai, il bacile per le abluzioni, che non è solo un oggetto funzionale, ma un simbolo di purificazione fisica e interiore. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e rinnovamento spirituale, come suggerisce l’incisione presente su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知), un monito alla semplicità e alla gratitudine. Il roji si suddivide in due parti: il sotoroji, il sentiero esterno che segna il distacco dalla quotidianità, e l’uchiroji, il tratto più intimo, che conduce all’introspezione. Non si tratta solo di una transizione fisica, ma di un percorso simbolico che guida verso una dimensione più profonda dell’essere.
Il secondo saggio esplora l’arte del bonsai, una pratica in cui natura e creatività si fondono in un dialogo raffinato. Brindeau mostra come il bonsai non sia una semplice pianta in miniatura, ma una rappresentazione simbolica dell’universo, espressione di equilibrio e impermanenza. Centrale è il nebari, l’intreccio delle radici visibili, emblema di stabilità e connessione tra terra e cielo. L’autrice collega quest’arte alla filosofia del mono no aware, la consapevolezza della bellezza effimera, e agli stili neagari e bunjin, che esaltano leggerezza e asimmetria. Ogni bonsai diventa così un microcosmo di cura e contemplazione, dove il tempo e la natura si intrecciano armoniosamente. Nel terzo saggio, Brindeau ci conduce in un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un’atmosfera sospesa tra memoria e trasformazione. Qui, l’abbandono non è segno di trascuratezza, ma un atto di restituzione alla natura, in cui il tempo scorre con un ritmo diverso, più vicino all’essenza stessa del paesaggio. L’autrice esplora il concetto di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi, che celebra l’imperfezione e l’effimero. Il muschio, simbolo di resilienza, e la luce soffusa che filtra tra le fronde,diventano protagonisti di una narrazione che richiama la fragilità e la bellezza dell’impermanenza. Il libro si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove il concetto di shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Ai margini di un tempio secolare, il Monte Hiei si staglia all’orizzonte, integrato perfettamente nella composizione del giardino. La natura e l’elemento costruito si fondono senza soluzione di continuità, abbattendo ogni barriera tra interno ed esterno, tra visibile e invisibile. Questo raffinato equilibrio invita il visitatore alla contemplazione, suggerendo una continuità tra la bellezza terrena e quella cosmica. Ogni sguardo rivolto alla montagna diventa un atto di comunione con l’universo, un’esperienza in cui il tempo sembra dissolversi in un’armonia senza tempo. Attraverso uno stile poetico e rigoroso, Brindeau offre un’opera che è molto più di una semplice descrizione di giardini: è un invito a riscoprire il valore della lentezza, della contemplazione e della profonda connessione tra uomo e natura.
Il sentiero che porta alla casa del tè.
Il primo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, si concentra sul roji, il “sentiero di rugiada” che collega il mondo esterno al padiglione del tè. Questo spazio, apparentemente semplice, è in realtà un microcosmo che incarna la filosofia zen e il principio di rallentare per entrare in sintonia con l’essenziale. Brindeau descrive come ogni elemento del roji – dalle pietre irregolari ai muschi, dalle lanterne al silenzio che permea il percorso – sia progettato per favorire la transizione dal caos quotidiano alla quiete contemplativa del rito del tè.
La suddivisione del roji in sotoroji (il sentiero esterno) e uchiroji (il sentiero interno) sottolinea una progressiva transizione sia fisica che spirituale: il primo invita a lasciarsi il mondo alle spalle, mentre il secondo accompagna verso un’introspezione profonda. Questo cammino è permeato dal concetto di Ichigo-Ichie (“un incontro, una volta sola”), che ricorda al lettore la preziosità dell’irripetibilità di ogni esperienza.
Brindeau non si limita a descrivere il roji come uno spazio fisico, ma lo trasforma in una metafora del viaggio interiore verso la consapevolezza e l’armonia, guidando il lettore in una riflessione che unisce estetica, spiritualità e natura.
Le radici: Paesaggio con bonsai
Il secondo saggio si addentra nell’arte del bonsai, un’antica pratica che unisce l’armonia naturale con la creatività umana. Brindeau analizza come il bonsai non sia una semplice pianta miniaturizzata, ma un’intera visione del mondo in miniatura, capace di esprimerne l’essenza attraverso la cura e l’attenzione del bonsai-ka.
L’autrice dedica particolare attenzione al nebari, l’intreccio delle radici visibili alla base dell’albero, simbolo di stabilità e connessione tra il mondo terreno e l’aria. Questo dettaglio, apparentemente tecnico, incarna una profonda riflessione sull’equilibrio tra opposti: forza e fragilità, permanenza e transitorietà.
Brindeau intreccia la narrazione con riferimenti alla pittura monocroma cinese e alla filosofia giapponese del mono no aware, sottolineando come l’arte del bonsai sia un’espressione della bellezza effimera e della sensibilità verso il ciclo vitale della natura. La descrizione degli stili neagari e bunjin, rispettivamente caratterizzati dall’esposizione delle radici e da una semplicità asimmetrica, amplifica l’idea che ogni bonsai racconti una storia unica, radicata nella tradizione ma aperta all’interpretazione personale.
Il giardino dimenticato di Komatsu
Nel terzo saggio, Brindeau esplora un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un microcosmo che riflette il concetto giapponese di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi. Qui l’abbandono non è percepito come trascuratezza, ma come una restituzione della natura al suo ciclo vitale.
Il muschio, simbolo di resilienza, e l’ombra, con la sua mutevolezza, diventano protagonisti di un dialogo che richiama la fragilità e l’impermanenza della vita. Brindeau arricchisce il saggio con riferimenti culturali, come il teatro Noh di Zeami e il celebre saggio Elogio dell’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, che approfondiscono il legame tra estetica, memoria e introspezione.
Questo giardino “dimenticato” si trasforma così in un luogo di meditazione, un rifugio che invita a riflettere sul rapporto tra uomo e natura, tra cura e abbandono.
Sul ciglio dell’Entsu-ji
Il volume si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove la filosofia dello shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Incorporando il MonteHiei all’orizzonte, il giardino dissolve i confini tra spazio naturale e costruito, creando un dialogo tra vicinanza e distanza, tra finito e infinito.
Brindeau esplora come la disposizione degli elementi del giardino inviti alla contemplazione e alla lentezza, trasformandolo in un luogo di connessione spirituale. Seduti ai margini del giardino, con lo sguardo rivolto alla montagna, ci si ritrova immersi in un’esperienza che trascende il quotidiano, riscoprendo l’interconnessione tra tutte le cose.
Il sentiero che porta alla casa del tè è molto più di una semplice raccolta di saggi: è un’opera che invita il lettore a un’esperienza sensoriale, intellettuale e spirituale. Véronique Brindeau, con la sua scrittura poetica e densa di significato, ci guida attraverso giardini che non sono solo luoghi fisici, ma anche metafore di un cammino interiore. Ogni pagina è un invito a rallentare, a osservare il mondo con occhi nuovi e a riflettere sull’essenza della vita.
Grazie alla sua profondità e alla sua bellezza, questo libro si rivolge tanto agli appassionati di cultura giapponese quanto a chiunque cerchi una pausa contemplativa nella frenesia del quotidiano. Un’opera da gustare lentamente, come un rituale, lasciandosi ispirare dal senso di armonia che ne emerge.
IL SENTIERO
CHE PORTA ALLA CASA DEL TÈ
di Elisabetta Imperato
É uscito da poco per Casadeilibri, nella sezione Porte d’Oriente, “Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone”, una raccolta di quattro saggi di Véronique Brindeau sulla cerimonia del tè e sull’arte dei giardini giapponesi. Il testo, tradotto da Lorenzo Casadei che ne ha curato l’introduzione, è illustrato da un ricco apparato iconografico che accompagna il lettore in un magico viaggio nei quattro giardini più affascinanti del Paese del Sol Levante. Avevo da poco finito di leggere il bel libro di Pia Pera col titolo tratto dalla poesia della Dickinson “Al giardino ancora non l’ho detto” quando è giunta alla nostra redazione la bozza prossima alla pubblicazione della raccolta “Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del Giappone”, corredata da immagini straordinarie. Nell’introduzione si fa riferimento proprio agli scritti di Pia Pera e in particolare ad una recensione apparsa su Gardenia al Louange des mousses della Brindeau, tradotto da Casadei per la stessa casa editrice.
Il sentiero che porta alla casa del tè inizia con l’immagine di una soglia, una semplice porta di legno appena socchiusa, che divide la casa del tè dal flusso urbano e dai rumori della città. Come in un rito di passaggio, l’autrice ci accompagna attraverso il cammino del tè in una dimensione senza tempo, separata dal mondo urbano. È un sentiero che sembra uscito da un dipinto a inchiostro cinese del periodo Song dell’XI secolo. L’intero percorso è tracciato per agevolare l’approdo nell’interiorità. La meta non è altro che dentro di sé. Ogni tappa del percorso evoca una tensione verso l’altrove. La disposizione irregolare delle pietre predispone il cammino e richiede un’attenzione vigile, un passo giapponese dall’ andamento ritmico e musicale che rallenta il tempo. Si procede in uno spazio verde come in uno stato di sogno che ricorda le immagini che Hillmann, nel suo ultimo libro, definisce la via verde, immanente alla psiche, per salvare la terra dalla catastrofe ecologica. L’impressione che ne deriva è che sia sospeso lo scorrere delle stagioni, in una immersione iniziatica nel colore delle origini, cullati dal canto del vento tra i pini. Il muschio, che ricopre gran parte del cammino, attenua i rumori, e il bacino per le abluzioni, posto rasoterra, richiede il gesto umile dell’accovacciarsi che evoca la sacralità del rituale. Attraverso due sentieri si giunge al padiglione del tè per una cerimonia che ha nella sua essenza la purificazione dei cinque sensi.
Le radici: paesaggio con bonsai dà il titolo alla seconda tappa del percorso. La visione delle radici affioranti dei ficus e delle mangrovie (grandi vene della terra simili a vecchi giganti dai corpi nodosi) richiede uno sguardo verso il basso, gesto che si fa umile e ricorda l’accovacciarsi per accostarsi al bacino per le abluzioni. Da queste radici l’artigiano bonsaista trae ispirazione quando modella un piccolo albero, soprattutto olmi cinesi e alberi dell’ombrello, rispettando i precetti degli antichi pittori raccolti ne Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Anche in questo caso il rapporto tra la pittura monocroma a china guida la mano del bonsaista celebrando l’unione tra poesia, arte e natura. Lo sguardo del bonsai-ka si dirige “più in basso, sempre più in basso” per scoprire la geometria vivente degli alberi. E le radici si rivelano essere creature di passaggio tra la terra e il cielo, l’oscurità e la luce.
Il giardino dimenticato di Komatsu. È la terza tappa del viaggio iniziatico che ci conduce in un luogo segreto e nascosto dell’isola dove domina il muschio, sposo dell’ombra. Ci incamminiamo in uno spazio-tempo sospeso e distante che sembra precedere l’apparizione dell’uomo sulla terra. L’ombra, ora continua ora discontinua, muta di densità nell’aria immobile, sotto l’effetto della luce filtrante, manifestandosi come sostanza fluida che ancora una volta viene paragonata agli effetti della pittura ad inchiostro a china. Il lettore è immerso in un paesaggio crepuscolare sotto un tetto di nubi. Lo spaesamento che ne deriva ha a che fare con l’oblio e con l’abbandono in cui per lungo tempo il giardino si è ritrovato separato dal mondo.
Sul ciglio dell’Entsu-ji. Nell’ultima tappa del nostro percorso raggiungiamo il primo tempio buddista situato in uno dei giardini più belli a nord est di Kyoto, progettato con intento pittorico per incorniciare il monte Hiei. Si tratta di uno scenario preso in prestito (shakkei), artificio tipico della cultura giapponese con cui il giardino amplia i suoi confini spingendo altrove lo sguardo del visitatore fino a catturare la montagna, inglobando il lontano nel vicino, oltre il gruppo dei cedri. Anche in questo caso, il tratto di cielo che si apre tra i pilastri che sostengono la tenda del tempio, rimanda all’estetica del vuoto dei dipinti a china. La costruzione confonde il senso delle distanze, cosicché si percepiscono cose vicine anche se lontane, cose lontane anche se vicine. Nel suggestivo gioco dello sguardo, uno specchio d’acqua può catturare un pezzo di cielo mentre la lontananza spaziale del monte, al contempo, si fa portatrice di una distanza temporale. La visione ci trasporta lontano, nel luogo di nascita del buddhismo, dove i monaci dal ritorno dalla Cina fondarono il primo monastero all’inizio del IX secolo.
L’attenzione ai dettagli e all’infinitamente piccolo (col muschio si può esprimere tutto, si legge nel libro), l’incontro alchemico tra l’acqua, l’aria e il fuoco, evocato dalla cerimonia del tè, la musica del vento tra le canne di bambù; tutti questi elementi trascinano il lettore in un’atmosfera fiabesca, offrono un rifugio dalla frenesia della città, dirottando l’attenzione, tanto del viaggiatore quanto del lettore, al presente del qui e ora. Ci sono tante ombre in questi giardini come in Perfect days di Wenders. C’è la stessa ritualità presa a prestito dai ritmi della natura. E ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo anche qui, come dice Hirayama alla nipote Niko nel giardino del santuario. Per altra via. Anche nel volume 1 della saga Kill Bill di Quentin Tarantino, quando la leggera porta di legno e carta di riso scorre, si supera una soglia metafisica. Lo scenario cambia e appare un tranquillo giardino d’inverno dove, in un simile spazio simbolico rovesciato, la neve scende leggera e densa nel buio della notte. Il giardino, nel bellissimo libro di Véronique Brindeau, diventa strumento di conoscenza, cammino che porta alla visione dell’essenza, stato di estrema chiarezza, unione perfetta tra corpo e mente che realizza quella armonia alla quale da sempre tendono tutte le arti giapponesi.