Recensione Shinto

«Shinto. Alle radici della tradizione giapponese»

«Lo shinto e una religione?». Con queste parole si apre il saggio di Paolo Balmas e, evidentemente, non e facile dare una risposta a tale quesito. Il termine shintoismo appare per la prima volta intorno al VI secolo, quando il contatto con la cultura cinese ha segnato una tappa cruciale dello sviluppo socioculturale giapponese. E in quest’epoca, e precipuamente come reazione all’influenza della Cina (e alla conseguente – nonche rapidissima – diffusione del buddhismo), che il Giappone codifica la propria lingua in forma scritta e si configura un corpus iconografico e una strutturazione di quelle pratiche cultuali che già da molto tempo erano parte della tradizione e che da allora verranno definite come «shintoiste».

La storia dello shintoismo e del buddhismo non e stata caratterizzata solo da contrapposizioni, quanto piuttosto da compenetrazioni, nonostante nella Costituzione che il Giappone si era dato nel 1889 lo shintoismo venisse definito come il naturale culto degli antenati da sempre praticato nell’isola proprio per differenziarlo da altre religioni. Il saggio, ricco di preziose indicazioni linguistiche, fornisce interessanti nozioni sulla visione metafisica shintoista. Scopriamo, ad esempio che nel Kojiki, una raccolta di testi «sacri» databile attorno al VII secolo, vengono enunciati alcuni pilastri della «religiosita» shintoista, per la quale esisterebbe una sorta di «legge di corrispondenza» fra ciò che si trova entro i confini della realtà manifestata e ciò che sta al di là di essa. Ciò a dimostrazione del fatto che la materia e compartecipe alla natura «divina» (o, per meglio dire, «spirituale») delle cose. Tale aspetto, sottolinea l’autore, sembra essere un carattere specificamente «giapponese», ravvisabile anche nell’assoluta necessita di contemplare la natura (sia nel suo lato positivo che in quello distruttivo) in un’ottica di immersione con essa ma anche come strumento di conoscenza. Proprio per tali caratteristiche, secondo l’autore, nonostante lo shintoismo rimanga strettamente legato alla cultura giapponese, la ricerca di equilibrio da esso propugnata e un messaggio all’umanità tutta.

Michele Lipori

(pubblicato su Confronti di giugno 2015)

Recensioni Hanafuda

Giappone “mon” amour

di Elena H Rudolph (da https://herudolph.wordpress.com)

kokeshiTra me e la kokeshi Yaishun (desiderio di primavera) è stato amore a prima vista: il suo nome deriva dai ramoscelli di pruno in fiore che decorano il kimono. Il corpo bianco rappresenta la purezza d’animo con cui affrontiamo la vita. In Giappone il fiore di pruno è tra i più amati: rappresenta la rinascita e simboleggia l’inizio, è il primo fiore a sbocciare a febbraio, spesso sotto la neve, e dimostra quindi una grande forza e tenacia ed è  particolarmente indicato per chi sta per intraprendere una nuova esperienza. Presto ha trovato un compagno, la kokeshi Shiawase Jizo (Jizo felice), una divinità guardiana e protettrice dei bambini e dei viaggiatori.Così è iniziato il mio viaggio nella cultura giapponese a gennaio, al Mercato Monti, dove Flaminia e il suo compagno mi hanno dedicato tempo e mi hanno raccontato dei loro viaggi regolari in Giappone dove acquistano kokeshi, haori, kimono e altri oggetti tradizionali. Sono ospiti fissi a Mercato Monti, al centro di Roma, e in altri mercati di artigianato.

La primavera arriva e mi ritrovo di nuovo immersa nel Giappone. Mercatino giapponese 10° edizione – Ex Dogana
Il Mercatino giapponese è un brulichio di gente di ogni tipo e di ogni età. Gli hangar sono gremiti di persone – un po’ troppe per i miei gusti – che si fermano davanti ai banchi che espongono di tutto: manga, gioielli fatti con gli origami, magliette con Jeeg Robot, Mazinga e tutti gli eroi e le eroine dei bambini degli anni ‘80. C’è chi assaggia il tè macha, chi si dedica a una seduta di shiatsu e chi prepara il suo prossimo soggiorno in Giappone. Non so se le giovani generazioni sanno che la prima a portare i capelli verde/blu, che oggi si vedono tanto in giro sulla testa delle adolescenti, è stata Lamù, un’aliena che indossa un bikini tigrato ed è innamorata di un ragazzo che chiama “tesoruccio”. Era la prima metà degli anni ’80 e Lamù dalla carta stampata dei manga fu catapultata sui nostri schermi televisivi. Di certo lo sanno le numerose teste dai capelli verde petrolio che si aggirano all’ex Dogana di scalo San Lorenzo per il 10° anniversario del Mercatino giapponese.

Mercatino Giapponese 10° edizione – Ex Dogana
Tra gli affollatissimi banchi non manca l’editoria specializzata. Incontro l’editore-traduttore-maestro di aikido Lorenzo Casadei di CasadeiLibri che mi mostra alcune pubblicazioni. Tra queste mi interessa Hanafuda – Il gioco dei fiori di Véronique Brindeau, studiosa e docente di musica giapponese a Parigi nonché traduttrice e già autrice di Elogio del muschio (pubblicato e tradotto da Casadei).

Ho avuto l’opportunità di partecipare alla presentazione del libro all’Aranciera dell’Orto botanico di Roma ad aprile, durante la fioritura dei ciliegi. Proprio in occasione dell’hanami (花見 letteralmente “ammirare i fiori”) i rami degli alberi del giardino giapponese sono stati ornati con gli haiku di Bashō e di altri poeti.
Per noi occidentali può sembrare arduo entrare in questo mondo, per questo il libro di Vèronique Brindeau (tradotto dallo stesso Casadei) è una preziosa guida che ci porta in un lungo viaggio tra passato e presente fin dentro le case, i teatri, le cerimonie che ormai non sono più così sconosciute. Non è un caso che il simbolo della casa editrice – il carattere mon – rappresenta una porta aperta su mondi diversi.

Hanafuda – Il gioco dei fiori è una lettura impegnativa, da leggere con calma, un poco per volta, con lentezza, come si fa quando si apprezzano le piccole cose. Per chi – come me – ha da poco cominciato a interessarsi del Giappone, è una miniera di spunti di riflessione.

L’hanafuda è un mazzo di 48 carte divise in 12 gruppi (uno per ogni mese dell’anno) di 4 carte. Sulle carte, di formato ridotto rispetto a quelle cui siamo abituati, sono raffigurati fiori, alberi, animali e (raramente) figure umane. Al di là del gioco vero e proprio, molto diffuso in Giappone, ciò che mi ha spinto verso questo libro sono le storie che, mese per mese, accompagnano il lettore e svelano tradizioni, leggende e mitologie del Giappone. Il testo ha un ricco apparato iconografico e f
otografico ma anche poetico e letterario ed è corredato di un mazzo di carte con relative regole del gioco.
Il mio mese preferito è novembre, rappresentato dal salice. Sulla carta madre di questo mese sono raffigurati un uomo che cammina ail poetaccanto
a un corso d’acqua, un salice e una rana. Quest’uomo è il poeta Ono no Tōfū, fondatore della calligrafia giapponese, il quale
introduce uno stile nuovo caratterizzato dalla delicatezza del tratto che richiama il ramo del salice.

 

Questo albero, infatti, ha la capacità di piegarsi senza rompersi, anche sotto il carico di neve, e rappresenta anche le abilità delle arti marziali. Narra la leggenda che il poeta, avendo fallito sei volte un concorso letterario, si aggirava abbattuto nei pressi di un fiume quando vide una rana che tentava di saltare su un ramo di salice per catturare un insetto. La rana fallì più volte nel suo tentativo, finché al settimo salto riuscì nel suo intento. Il poeta, ispirato da questa visione, ritrovò il coraggio e vinse il concorso. La carta del Poeta sotto la pioggia, protetto da un ombrello, che passa accanto a un fiume accompagnato da una rana, rappresenta un’immagine edificante della volontà e della tenacia ricompensata.
shunsenyanagi-onnaIl salice, o meglio il suo “spirito”, è anche protagonista di una suggestiva leggenda, quella del salice di Kyoto, che lo stesso Casadei racconta qui e che ho ascoltato con grande gusto durante la presentazione di aprile. (Che potete trovare in appendice al libro Shinto alle radici della tradizione)

Se ne avete la possibilità, andate alle presentazioni del libro perché è sempre un piacere ascoltare le storie direttamente da chi le ha raccolte. Le prossime saranno all’Orto botanico di Trieste e al Festivaletteratura di Mantova.

Hanafuda, il gioco dei fiori

Copertina Hanafuda
Copertina Hanafuda

Dopo il grande successo de L’elogio del muschio finalmente il secondo libro di Véronique Brindeau.

Nel XVI secolo nacque in Giappone un gioco di carte molto particolare, Hanafuda. Un gioco senza re, né regine, ma iris, ciliegi e salici, poesie e leggende, simile ad un erbario meraviglioso dove fiori e piente svelano un tesoro di riferimenti mitologici, letterari e paesaggistici.

Véronique Brindeau, mese per mese ne svela i segreti.

Con il libro un mazzo di carte per giocare nel classico formato della Nintendo e le regole di Koi koi e Aiawase.

hanafuda presentazione

 

Formato: , Pagine: , ISBN: 9788889466803 Prezzo: 25,00 Con le carte da gioco.

Gatti Giapponesi


gatti2Ritratti felini dagli inizi del Novecento ai giorni nostri

(a cura di Diego Cucinelli)

I dieci racconti racchiusi in questo volume esemplificano la consacrazione del gatto nella letteratura giapponese moderna e contemporanea. Gli autori, tutti grandi amanti dei felini, spaziano dal romanziere di fama internazionale Natsume Sōseki allo scrittore fantasy Kyōgoku Natsuhiko, recente caso letterario. Anche per quanto riguarda i generi si è cercato di offrire al lettore il ventaglio di possibilità più ampio possibile, affinché possa ammirare l’animale da più prospettive e ne emerga la straordinaria versatilità che ha ispirato personalità artistiche eterogenee e distanti tra loro: scritti privati, testi visionari con gatti spettrali e fiabe moderne dalle molteplici chiavi di lettura. Agile e sinuoso quindi non solo nelle movenze, ma nell’essenza stessa, il gatto assurge a topos letterario che permette di individuare un filo che unisce passato e presente del Giappone e, al contempo, il suo rapporto con le culture straniere.

Opere:

Formato: 13,5x21 cm - dorso quadro, Pagine: 194 illustrato, ISBN: 9788889466889 Prezzo: € 16,00

Elogio del Muschio


Elogio del Muschio - libroVéronique Brindeau

Erano prima del tempo degli uomini, ben prima di quello degli alberi e dei fiori … Il giardino che porta alla casa del té, dove si reca chi vuole affrancarsi dal mondo, è tessuto di muschi.
Così inizia il magnifico libro della Brindeau. Un viaggio tra antichi giardini, arte e poesia del Giappone, alla scoperta del regno incantato dei muschi all’«incrocio dei sogni» dove i vivi e i morti si parlano per mezzo di immagini.
Di Veronique Brindeau in preparazione
Hanafuda, il gioco dei fiori.

Formato: 17 x 24 cm., Pagine: 108 illustrato, foto a colori., ISBN: 9788889466926 Prezzo: € 18,00

Scarica il capitolo introduttivo

Intervista al traduttore (Rai educational)

Recensioni

Formato: 17 x 24 cm., Pagine: 108 illustrato, foto a colori., ISBN: 9788889466926 Prezzo: € 18,00

Shintō Alle radici della Tradizione giapponese

shintoshinto

Paolo Balmas

Lo shintoismo si presenta ancora oggi come un fenomeno misterioso, difficile da penetrare e poco trattato anche in ambiente accademico. Shinto – Alle radici della tradizione giapponese, tenta di fare luce su un mondo complesso e affascinante che sembra impossibile da comprendere dall’esterno nella sua pienezza.

 

Contiene il saggio: Il salice di Kyoto di Lorenzo Casadei

Recensione

Formato: 13,5x21 cm, Pagine: 160 illustrate, ISBN: 9788889166812 Prezzo: € 16,00

Uchida Eizō 内田栄造

Uchida Eizō (1889-1971), in seguito conosciuto come Hyakken 百間 (Cento intermezzi) e Hyakkien 百鬼園 (Cento giardini demoniaci), nasce a Okayama, unico figlio di una famiglia di produttori di sake. Se il rapporto con il padre – uomo autoritario e dal carattere forte – non è semplice, l’affetto che più incide sull’infanzia di Hyakken è la nonna, di cui si trovano numerose tracce nelle produzioni giovanili e in alcuni scritti dell’età matura: tra questi, in particolare, spicca il racconto breve Shūkurīmu シュークリーム (Bignè alla crema, 1908) – incluso anche in una recente antologia di racconti moderni e contemporanei incentrati sugli “spuntini” (oyatsu)– in cui Hyakken ricorda la nonna che esce di casa nottetempo per acquistare il dolce tanto desiderato. Al liceo studia poesia sotto la guida del compositore di haiku Shida Sokin (1875-1946) ed è proprio questi a suggerirgli di inviare a Natsume Sōseki, che all’epoca iniziava a imporsi al pubblico, lo shaseibun 写生文 (“prosa bozzettistica”) Rōbyō (Vecchio gatto, 1908) pubblicato poco prima su una rivista per scrittori in erba. Come si riscontra anche in uno dei numerosi pseudonimi giovanili, Ryūseki 流石 (Meteora), Hyakken dimostra una forte ammirazione nei confronti di Sōseki e una delle sue massime aspirazioni è formarsi sotto l’egida di questi. Lo shaseibun evidentemente sortisce l’effetto sperato e così, parallelamente ai corsi di Letteratura Tedesca presso l’Università di Tokyo, dal 1911 Hyakken entra a far parte del Circolo del Giovedì (Mokuyōkai 木曜会), il ritrovo per intellettuali che Sōseki organizza nella sua residenza situata nel quartiere di Waseda, il Sōseki Sanbō. È qui che fa la conoscenza di vari personaggi essenziali nella sua carriera futura, come il celebre scrittore Akutagawa Ryūnosuke (1892-1927) e gli amici Terada Torahiko e Suzuki Miekichi (1882-1936), ma soprattutto inizia a dimostrare interesse per i gatti: come sottolinea Oka Masao, direttore del Museo “Uchida Hyakken” di Okayama, negli anni che precedono l’incontro con Sōseki Hyakken non ha mai dato prova di essere un amante dei felini, ma il rapporto osmotico con il maestro e il tempo trascorso con il gatto di questi hanno evidentemente mutato i gusti dello scrittore. Come Terada Torahiko e altri membri del Circolo del Giovedì, anche Hyakken inizia ad allevare un gatto in casa. Tuttavia, nel suo caso sarebbe più corretto affermare che l’animale si stabilisce arbitrariamente nell’abitazione dello scrittore: l’incontro con Nora ノラ, il primo dei due felini amati dallo scrittore, avviene per un caso ma mano a mano il loro rapporto si fa tanto profondo che alla morte dell’animale l’artista precipita in uno stato di depressione da cui solo la scrittura riesce a risollevarlo. Frutto di questo momento critico è il componimento Noraya ノラや (Nora!, 1957), che se da un lato rappresenta un’elegia dedicata all’animale scomparso dall’altro contiene un messaggio di affetto nei confronti del suo nuovo gatto, Kurtz クルツ, il cui nome è ispirato al pianista cecoslovacco Vilém Kurtz (1872-1945). In qualità di uno dei principali correttori di bozze di Sōseki, dopo la morte del maestro Hyakken contribuisce alla realizzazione dell’opera omnia curando in particolare l’uniformità del kanazukai, esperienza che in seguito lo porta a pubblicare Natsume Sōseki zenshū kōsei bunpō 夏目漱石全集校正文法 (1917) ovvero “Correggere le bozze dell’opera omnia di Natsume Sōseki”.  Diversi sono i lavori che Hyakken dedica a Sōseki negli anni a seguire, di volta in volta presentandone particolari della vita in chiave comica, come in Sōseki Imō 漱石遺毛 (I peli tagliati Sōseki, 1934), o attraverso la riscrittura, come per Gansaku wagahai wa neko de aru 贋作吾輩は猫である (Il falso “Io sono un gatto”, 1949), parodia del celebre Io sono un gatto in cui il felino torna miracolosamente in vita pronto a un nuovo confronto con il mondo. Il legame con la famiglia Natsume rimane forte nel corso di tutta la carriera, in particolare attraverso l’amicizia con il sesto figlio del maestro, Natsume Shinroku, da cui riceve in dono i dischi e il grammofono di Sōseki, oggetti alla base dell’ispirazione per uno dei suoi capolavori, Sarasāte no ban サラサーテの盤 (Il disco di Sarasate, 1948). Racconto visionario in cui i quattro protagonisti sono trasportati in una dimensione immaginaria ascoltando un disco del violinista spagnolo Pablo de Sarasate (1844-1908), il romanzo scelto dal regista Suzuki Seijun come ispirazione per il film Zigoineruwaizen (Zigeunerweisen, 1980) che apre la sua celebre trilogia. La critica considera quest’opera il picco massimo raggiunto dalla mano di Hyakken, ma come dimostra in Nora! e nella serie di racconti di viaggio Ahō ressha 阿房列車 (Il treno per il Palazzo Epang, 1950-1955), il suo estro non accenna mai a scemare, rivelando invece una propensione sempre maggiore a indagare i misteri di luoghi fantastici e sconosciuti popolati da esseri sovrannaturali.

(scheda di Diego Cucinelli)

Miyazawa Kenji 宮沢賢治

Kenji alla lavagna

Miyazawa Kenji (1896-1933) nasce nella prefettura Iwate, ad Hanamaki nel Tōhoku, una delle aree più fredde e selvaggie di tutto il paese. La società locale prevalentemente agricola e il variegato paesaggio, ricco di cromie che spaziano dal verde intenso delle stagioni calde al bianco brillante delle vallate innevate in inverno, hanno un forte impatto sulla personalità dell’artista che emerge nei suoi numerosi racconti per l’infanzia (dōwa 童話), i cui protagonisti appartengono sovente al mondo animale e vegetale. Gli anni della formazione rappresentano per l’autore l’occasione di espandere i propri orizzonti: il fermento culturale dei grandi centri urbani favorisce la passione e gli studi del giovane Miyazawa nel campo della letteratura straniera, delle scienze naturali e dell’entomologia. Nonostante l’acceso conflitto con il padre che lo vorrebbe a gestire l’attività di famiglia, un banco dei pegni, dopo il conseguimento della laurea in Agraria porta avanti le proprie ricerche sui fertilizzanti presso l’Università di Morioka. Negli stessi anni, legge la traduzione giapponese del Sutra del Loto, esperienza tanto profonda che lo porta a convertirsi al buddhismo di Nichiren. Si appassiona alla musica classica, in particolare all’opera italiana e ai grandi compositori europei. È questo il periodo in cui prende piena forma la sua personalità artistica, che si intravede fin dai primi tanka e nelle letture degli anni dell’adolescenza, che spaziano dai sutra buddhisti alla narrativa russa. Gli studi in campo scientifico si fondono con un immaginario personale coltivato nel tempo attraverso il contatto con forme di espressione artistica appartenenti a contesti culturali diversi e una solida spiritualità radicata nell’animo, quella vocazione che negli anni a seguire lo conduce fino a Tokyo per diffondere gli insegnamenti del Sutra del Loto: tutto ciò emerge dai suoi dōwa, ai quali si dedica in maniera febbrile dal 1921 in parallelo all’attività di monaco itinerante.

Ben poche sono le opere che vedono le stampe mentre è in vita: la raccolta di poesie Haru to shura 春と修羅 (La primavera e gli asura, 1924), l’antologia di fiabe Chūmon no ōi ryōriten 注文の多い料理店 (Un ristorante pieno di richieste, 1924) e qualche altro scritto apparso su delle riviste letterarie. A dispetto di ciò, grazie all’attività di Miyazawa Seiroku (宮沢静六, 1904-2001), il fratello minore, l’opera omnia viene per la prima volta pubblicata tra il 1934 e il 1935 e, continuando a incontrare sempre più il favore dei lettori, si giunge alla storica edizione critica in quattordici volumi edita nella metà degli anni Settanta. A pochi anni dalla morte, avvenuta nel 1933 per tubercolosi, la popolarità di Miyazawa è già grande e soprattutto legata ai dōwa e ai racconti di media lunghezza, quali il celebre Kaze no Matasaburō 風の又三郎 (Matasaburō, il fanciullo del vento, 1934),  la  storia di un adolescente di origine meravigliosa che vive nel Tōhoku. A partire dagli anni Settanta, poi, si assiste a un vero e proprio boom di Miyazawa che si riflette nei lavori di artisti operanti anche in campi diversi da quello della letteratura, come nel caso di Gingatetsudō 999 銀河鉄道999 (Galaxy Express 999), il successo internazionale del disegnatore Matsumoto Reiji (n. 1938) che riprende l’immagine del treno itinerante nello spazio di Gingatetsudō no yoru 銀河鉄道の夜 (Una notte sul treno della Via Lattea, 1934). Nonostante la loro classificazione come “letteratura per l’infanzia” (jidō bungaku 児童文学), le fiabe di Miyazawa sono molto lette anche dagli adulti e oggi sono oggetto di ampio dibattito critico a livello internazionale. Come osserva la critica Muramatsu, è proprio la preponderanza di dōwa nella produzione ad aver portato Miyazawa a ricevere scarsa attenzione da parte degli studiosi della storia letteraria “ufficiale” del suo tempo, concentrati prevalentemente sugli scrittori di romanzi in stile occidentale. L’occhio attento al mondo della natura e l’animo sensibile di questo autore fanno facilmente breccia nel lettore, coinvolgendolo in un insieme di scene brevi e incisive che nascondono una molteplicità di piani di lettura al loro interno.

Natsume SōsekiI 夏目漱石

Soseki

Natsume Sōseki (1867-1916), pseudonimo di Natsume Kin’nosuke, (夏目金之助), nasce a Tokyo, ultimo figlio di una famiglia già numerosa, forse troppo per poter sostenere l’educazione del nuovo arrivato. Così viene affidato ai coniugi Shiobara, con i quali cresce fino all’età di nove anni, momento in cui la coppia divorzia: rientrato nella casa dei genitori, è accolto calorosamente dalla madre, ma si vede rifiutato dal padre. Ben presto si manifesta la sua passione per la letteratura, con particolare attenzione alla poesia, lo haiku e ai classici cinesi, interesse che sviluppa negli anni a seguire anche attraverso la profonda amicizia con il poeta Masaoka Shiki: giunto all’università abbraccia lo studio della lingua e della letteratura inglese, specializzandosi in questo campo di studi presso l’Università Imperiale di Tokyo.

Nel 1895 si sposa con Nakanee dopo un primo periodo di alcuni anni in cui insegna inglese prima nello Shikoku e successivamente nel Kyūshū, esperienze di cui si trovano tracce nel celebre romanzo Bocchan 坊ちゃん (Il signorino, 1906). Nel 1900 il Ministero dell’Istruzione lo invia in Inghilterra per approfondire lo studio della lingua: il soggiorno in terra straniera si rivela però più difficoltoso del previsto, tanto da mettere a repentaglio la salute fisica e mentale dell’intellettuale. Al suo ritorno in Giappone, nel 1903, Sōseki torna a dedicarsi all’insegnamento prendendo il posto di Lafcadio Hearn (1850-1904) presso la cattedra di letteratura inglese dell’Università Imperiale di Tokyo e in seguito presso l’Università Meiji. Continuano a essere anni difficili per l’autore, il rapporto con la moglie si rivela burrascoso e il suo equilibrio psicologico è soggetto a continue oscillazioni: è la scrittura a sostenerlo durante questo periodo e il frutto di tale lavoro si condensa nella sua opera prima, Wagahai ha neko de aru 吾輩は猫である (Io sono un gatto, 1905), destinata a diventare uno dei capisaldi del neko bungaku di tutti i tempi. Il gatto descritto nel romanzo, critico giudice dei comportamenti umani, va interpretato come una maschera dell’autore, un mezzo usato da Sōseki per esprimere, in chiave satirica, il proprio punto di vista sulla società giapponese e i suoi repentini mutamenti. In tal senso, a partire dalla questione sull’individualismo, Io sono un gatto anticipa molte delle tematiche che l’autore approfondisce nelle opere della maturità, quali Mon 門 (Il portale, 1910) e Kokoro こゝろ (Il cuore delle cose, 1914).

Sebbene la sua produzione comprenda trattati critici sulla letteratura fin dai primi anni, come nel caso di Bungakuron 文学論 (Trattato sulla letteratura, 1907), è dopo il completamento della seconda trilogia che lo scrittore si concentra maggiormente su riflessioni filosofiche e sull’analisi del proprio vissuto. A partire dal celebre saggio Watashi no kojinshugi 私の個人主義 (Il mio individualismo, 1914), in cui espone la propria visione circa l’individualismo, il rifiuto dell’omologazione e il senso di solitudine che comunque comporta l’allontanamento dal gruppo, i testi composti in questi anni riflettono il disagio psicologico vissuto da Sōseki e il suo istinto a guardarsi indietro come se presagisse l’incombente fine dei suoi giorni. È così che nasce il suo unico testo dalla chiara connotazione autobiografica, Michikusa 道草 (Erbe sulla via, 1915), un romanzo comunque lontano dalle esplicite confessioni proposte dal naturalismo, piuttosto un tentativo di un esame distaccato, privo di pregiudizi e illusioni. L’opera che precede il suo ultimo lavoro rimasto incompiuto, Meian 明暗 (Luce e ombra), è la raccolta di ricordi e riflessioni personali intitolata Garasuto no uchi 硝子戸の中 (Entro la porta a vetri, 1915) pubblicata l’anno prima della sua morte: in queste pagine si trova il riflesso di quella che sovente viene indicata come la filosofia degli ultimi anni riassunta nel principio sokuten kyoshi 則天去私, “seguire il cielo e abbandonare se stessi”, l’esigenza di trascendere le proprie passioni egoistiche per affidarsi a qualcosa di superiore.

(scheda di Diego Cucinelli)

Umezaki Haruo 梅崎春生

Umezaki Haruo (1915-1965) nasce nel sud del Giappone, nella città di Fukuoka, nel Kyūshū: particolarmente legato alla sua terra, la abbandona malvolentieri per stunella capitale, come era in uso tra i ragazzi dell’epoca. Si specializza in Letteratura presso l’Università Imperiale di Tokyo e subito dimostra talento, facendosi notare per alcuni racconti pubblicati su importanti riviste letterarie tra cui Waseda Bungaku (Letteratura di Waseda). Negli anni della guerra è arruolato nell’esercito e inviato a Kagoshima in qualità di addetto ai cifrari e alla decodificazione delle intercettazioni. È un periodo che segna fortemente Haruo, determinando le future scelte in campo letterario: le sue produzioni più celebri infatti appartengono al genere della letteratura di guerra (sensō bungaku 戦争文学), con opere spesso ambientate nelle stesse terre in cui lui prestava servizio nell’Esercito. Sakurajima 桜島 (1946), a cui tutt’oggi deve gran parte della fama raggiunta, si ambienta sull’omonima isola al largo della costa meridionale del Kyushu e consiste nel reportage delle ultime battute della guerra da parte di un addetto alle comunicazioni dell’esercito giapponese. Ricco di approfondimenti sul mondo psicologico del protagonista, mette in luce il suo sentimento di desolazione e disperazione: il suo mondo interiore si riflette nell’ambiente circostante, del quale l’occhio dell’uomo sottolinea particolari legati alle idee di “devastazione” e “sconfitta”. Il suo rapporto con i gatti, invece, mette in evidenza i lati più allegri della personalità di Haruo, sia negli scritti ispirati alla vita privata sia in quelli appartenenti agli altri generi sperimentati dall’autore – quali, a esempio la fiaba, come nel racconto racchiuso nel presente volume – nei quali abbondano figure feline descritte dall’autore con cura dei dettagli e stile vivace. In particolare, il romanzo Karo sandai カロ三代 (Le tre generazioni di Karo, 1952), illustra in senso diacronico l’attaccamento dell’autore agli animali attraverso le tre “reincarnazioni” di Karo カロ, i tre gatti da lui posseduti: dopo la morte del primo, il ricordo del quale non lo abbandona mai, decide di assegnare lo stesso nome ai due di cui si prende cura negli anni a seguire. Indipendentemente da ogni legame di sangue, i tre felini si trovano legati da un rapporto onomastico, eppure questa non è l’unica peculiarità rivelata in Karo sandai: il protagonista umano del romanzo, infatti, ha l’abitudine di picchiare “Karo III” con degli scaccia-zanzare di bambù posizionati appositamente in più punti dell’abitazione. Il particolare non sfugge agli amanti dei gatti e, stando a quanto affermato da Etsu, la moglie di Haruo, subito dopo la pubblicazione dell’opera lo scrittore viene investito da una pioggia di lettere di protesta dei lettori. Nell’intervista rilasciata, Etsu non manca poi di sottolineare come il protagonista del romanzo non abbia nulla a che fare con la figura dello scrittore che, dal canto suo, non ha levato la mano su nessuno dei suoi adorati gatti. Haruo, infatti, a proposito di questo episodio non manca di sottolineare con sprezzante ironia che «se in un romanzo si racconta un omicidio nessuno ha nulla da dire, ma se invece a essere ucciso è un gatto allora si alza un polverone incredibile: roba da matti!».

(Scheda di Diego Cucinelli)