Recensioni LA Campana Sommersa e L’Ascensione di Adele

Levante News LA Voce del Tirreno

UNA MISSIONE PER LA GIUNTA CHE VERRÀ

Rapallo: a Roma “tolgono la polvere” dalla targa di Hauptmann, nume dimenticato da 30 anni

Siamo consapevoli che la posterità di Gerhart Hauptmann sia roba difficile da inserire in un programma elettorale, ma anche il sonno ormai trentennale della memoria di questa Premio Nobel – a cui cento anni fa una Rapallo colta e cosmopolita guardava con ammirazione – ha fatto il suo triste tempo. Consigliamo dunque agli aspiranti assessori o incaricati alla cultura di non lasciarsi sfuggire “La campana sommersa e l’ascensione di Hannele”. Da qui, dalla traduzione di due capolavori del teatro simbolista, si può ripartire per diffondere la conoscenza di Hauptmann al pubblico italiano. La riscoperta del drammaturgo tedesco da parte del mercato editoriale nostrano, di cui va dato merito all’Editore romano “CasadeiLibri” e ai curatori Eduardo Ciampi e Inesa Serbayeva, dovrebbe essere una vera e propria notizia nella città che in Hauptmann – parole e musica del giornalista Carlo Linati – aveva il suo “nume indigete”, la sua divinità protettrice.

La targa affissa nel 1995 sul muro del Palazzo di Via Avenaggi che ne ricorda il primo soggiorno, nel 1925, è oggi lettera morta in cerca di un nuovo “perché”; un “perché” che non dovrebbe essere difficile individuare nella sorprendente attualità dell’autore. Scrivono Ciampi e Serbayeva: “Nella cosiddetta era industriale, il rapporto dell’uomo con la natura viene a mutare radicalmente (…) L’idea della sacralità del creato viene completamente annullata e sostituita dal principio dell’io dominante. L’uomo non è più il perno che mantiene e controlla l’equilibrio biologico e spirituale della terra: è un predatore vorace che la assale, la colonizza e la ferisce”

.Ne “La campana sommersa” – fra debiti goethiani e richiami alla tradizione fiabesca dei fratelli Grimm – va in scena il conflitto fra il cristianesimo e il paganesimo, fra il Dio Personale e l’Assoluto simboleggiato dal Sole, fra il Maestro Enrico e il gli esseri soprannaturali disturbati dall’affaccendarsi dell’uomo, un dramma che indica la necessità di una riconciliazione che ancora interroga la nostra weltanschauung. L’autore tedesco ha anche il merito di esplorare terreni fragilissimi e intrisi di emotività – come la morte per suicidio di una bambina, Hannele – offrendo chiavi di lettura che sottraggono la morte alla visione disperata che ne ha l’uomo moderno: “Il bambino, non separando la vita dalla morte, il sogno dalla realtà, si fida dell’esperienza della sua anima, e non della coscienza empirica di veglia”. In Hauptmann la morte – angelo in veste nera – è forte e bella. E’ difficile distinguerla dalla fiaba. “Il bambino, che vive nel mondo della fantasia (…), attraverso la morte, manifestato sotto forma di fiaba, è liberato dall’incessante obbligo dell’essere (…) Hannele diventa figlia del cielo (…), l’ascensione è un’impennata dell’anima, un’eccitazione festosa”.Agli occhi dell’uomo di oggi Hauptmann si muove sul limite della provocazione e del tabù, sfidando sia la moderna visione scientifica della natura sia il terrore della morte che nutre una società arroccata sulla vita biologica come sua unica, possibile dimensione esistenziale. Qui, nella capacità di condurci oltre gli schemi più usurati del nostro tempo, risiede la sua preziosità. La sua riscoperta è allora qualcosa di più di un vezzo intellettuale o di una vanità di provincia. È una missione spirituale che Rapallo, città priva da decenni di una missione sullo scenario culturale italiano, può prendere sulle sue spalle anche in vista della riapertura delle “Clarisse”, a cui un nume indigete non guasterebbe affatto.

Gerhart Hauptmann, La Campana sommersa e Ascensione Hannele

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Gerhart Hauptmann

La Campana sommersa e Ascensione Hannele

Il teatro simbolista del premio Nobel per la letteratura 1912, per la prima volta tradotto e raccolto in un’unica pubblicazione. Due testi tragici di grande spessore drammaturgico, tradotti per poter essere utilizzati in auspicabili nuove rappresentazioni teatrali, o fruiti come letture stimolanti ed edificanti.

Gerhart Hauptmann (1862-1945) si affacciò al mondo della letteratura con opere ispirate al movimento letterario naturalista, del quale, ben presto, divenne il massimo esponente. La sua personalità poliedrica e versatile lo portò a varcare i confini del naturalismo per esplorare, in maniera sempre più ispirata, nuove aree dell’intimismo neo-romantico e del simbolismo.

Sono venuto di corsa e ho i piedi che mi sanguinano; dammi dell’acqua per lavarli.Il sole caldo mi ha riarso; dammi vino da bere in modo che mi rinfreschi.

(L’ascensione di Hannele)

Questi luoghi son belli… Vi è qui come uno strano e sonoro fragore. I pini si scuotono così stranamente e lanciano musiche attraverso i loro rami oscuri; solennemente agitano le cime. La leggenda…, sì la leggenda della selva… Essa ha dei mormorii segreti, attorciglia, divelle e solleva il fogliame, canta tra le erbe dei boschi e…, e vedi, avvolta nella candida nebbia con la sua lunga veste incantata, essa avanza a braccia protese… mi fa segno con la mano… mi è vicina… mi tocca… l’orecchio, la lingua… gli nocchi…

(La Campana sommersa

Recensioni

TANGO la danza sconfinata

TANGO LA DANZA SCONFINATA

Il tango da respirare, ascoltare, ballare. Come danza, improvvisazione, condivisa nelle coppie in pista. Non fissato una volta per tutte. E allora, perché scriverne? La scrittura definisce e circoscrive i suoi oggetti e il tango inafferrabile. Ma, se lo si vive, si cerca di farlo proprio, di conoscerlo, di entrare nel suo mistero. In milonga, in scena, sugli schermi, nelle onde e nei ritmi della musica, il tango rinasce ogni notte, viaggia i continenti, cambia musica, instancabilmente. Non solo tacchi e spacchi, bravura mascolina, passione e seduzione – anche – ma geometrie e architetture, ascolto di sé e dell’altro/a, condivisione di un piacere e anche cambio de rol. Il tango personale e universale. 

Il tango diventato nel tempo anche spettacolo, sfida di virtuosi, in palcoscenico, teatro musicale con un gigante come Astor Piazzolla, pop nel mix con l’elettronica. Il tango come danza, il tema che l’autrice ha scelto di indagare a tutto campo, senza limiti né pregiudizi, con la massima apertura e curiosità, in un intreccio di storia e attualità, guardando già al domani.

Elisa Guzzo Vaccarino, laureata in filosofia, formata alla danza accademica e contemporanea, si occupa di balletto e di danza da decenni su quotidiani, attualmente QN, periodici e riviste, Ballet2000, Classic Voice, Fyinpaper online; firma saggi per Fondazioni Liriche e teatri, per booklet di DVD, cataloghi d’arte; collabora con la Biennale Danza e l’ASAC di Venezia, oltre che con ERT-“Carne”, è stata consulente di Torino Danza Festival dal 1987 al 1997 e del Premio Carla Fendi di Spoleto. Ha pubblicato libri su Béjart, Kylián, Bausch, Balanchine, Cunningham, Forsythe, la danza futurista e quella globalizzata, Cuba, il tango, la Geopolitica della Danza, parlando alla radio, RAI 3, realizzando programmi televisivi sui canali satellitari culturali (Tele+3, Rai Sat Show, Rai 5) e curando mostre come La Danza delle Avanguardie al MART di Rovereto-Trento. Ha insegnato Storia ed Estetica della Danza all’Università, in Italia e all’estero, e alla scuola di ballo della Scala, curando poi il coordinamento artistico del MAS di Milano. Dal 2023 fa parte del Consiglio Superiore dello Spettacolo del Ministero della Cultura.

tango

 

PRESENTAZIONE SU RA3 suite magazineI https://www.raiplaysound.it/audio/2024/06/Radio3-Suite—Magazine-del-24062024-1a06f56f-23f8-4bce-b48d-3baf73bd4762.html

Recensione Neve su foglie vermiglie

ROCKERILLA

luglio 2024

Il riconoscimento dell’unità di tutte le cose (simboleggiato dal bianco della neve) di fronte alla molteplicità dei fenomeni di cui facciamo esperienza (in metafora l’infinita varietà di sfumature vermiglie delle foglie) è al centro della pratica del Dharma e costituisce anche il punto di fuga della poetica meditativa e pacificante del maestro zen Eihei Dögen Zenji (1200-1253), un composto invito – quasi privo di gesto – al distacco dai sentimenti umani attraverso la contemplazione poetica della natura. Il curatissimo volume edito da CasadeiLibri raccoglie waka e kanshi, poesie rispettivamente in giapponese e in cinese, selezionate, tradotte e squisitamente commentate da Shöhaku Okumura con precisione filologica e profonda padronanza della materia e impreziosite dalle eleganti calligrafie di Norio Nagayama. Vivamente raccomandato agli amanti del Paese del sol levante e ai cultori dell’estetica e della filosofia zen.

Alessandro Hellmann

 

SANS FICTION
EIHEI DŌGEN ANTEPRIMA. NEVE SU FOGLIE VERMIGLIE

Una storia semplice: “Una volta Panchan stava camminando per il mercato e vide un cliente che comprava carne di maiale. [Panshan ha sentito il cliente] dire al macellaio: “Tagliamene un bel pezzo”. Il macellaio posò il coltello, rimase in piedi con le mani giunte in shashu e disse: “Signore, quale non è un buon pezzo?” Dopo aver ascoltato queste parole, Panshan ebbe una profonda intuizione”.

L’illusione delle soluzioni facili: “Alla ricerca della spada” si riferisce alla storia di una persona la cui spada cadde in acqua mentre era a bordo di una barca. Questi fece un segno sul lato della barca dove aveva perso la spada. Un’altra persona gli chiese: “Cosa stai facendo?” Rispose: “Cercherò la spada quando la barca raggiungerà la riva”.

È in libreria Neve su foglie vermiglie, la raccolta di poesie del maestro zen Eihei Dōgen commentate da Shohaku Okumura (Casadeilibri 2024, pp. 316, € 23, con traduzione di Michel Gauvain e Lorenzo Casadei).

Eihei Dōgen (1200 – 1253) è stato uno dei più importanti maestri dello zen giapponese, fondatore della scuola buddhista Zen Sōtō. La più diffusa e radicata in Occidente.

Il titolo “Neve su foglie vermiglie” evoca davvero un’immagine suggestiva e profonda, che riflette l’armonia tra unità e molteplicità, concetti fondamentali nella pratica zen. La poesia degli waka, precursori degli haiku, è intrisa di significati stratificati che penetrano nell’animo umano, ma l’autore riesce comunque a comunicare in modo immediato e accessibile attraverso questa forma poetica. La comprensione della poesia diventa così alla portata di tutti, offrendo ai lettori italiani l’opportunità di immergersi nelle profonde metafore del maestro Zen e di esplorare il significato più profondo della vita e della natura.

Tra i molti argomenti trattati, Dogen sottolinea in particolare i seguenti punti: vedere l’impermanenza, allontanarsi dall’io centrato sull’ego, essere liberi dall’avidità, rinunciare all’attaccamento a se stessi, seguire la guida di un vero maestro e la pratica dello zazen, in particolare dello shikantaza, o “stare semplicemente seduti”. Inoltre, questa traduzione dello Shobogenzo Zuimonki è corredata da ampie note che contribuiscono a fornire un nuovo modo di avvicinarsi al testo.

Raramente viste in una raccolta così ampia o con un commento, queste poesie offrono una visione unica degli insegnamenti di Dogen e sono una bellissima espressione artistica del Dharma.

Carlo Tortarolo

La Riconocenza

La Riconoscenza
La Riconoscenza

Un anziano professore di storia ‘imbatte in una pergamena medievale della quale cerca di ricostruire la singolare vicenda:

trafugata nel corso della Prima guerra mondiale da un castello sulle colline trevigiane, è finita nelle campagne boeme dentro lo scarpone di un soldato in fuga. Ma mentre ricompone l’epopea misconosciuta della Legione Cecoslovacca in Italia, il professore tradisce i segni della demenza senile. Vuole disperatamente raccontare questa storia, ma la sua memoria sdrucciola sul territorio dell’invenzione. Il romanzo storico diventa così la storia di un romanzo impossibile. A meno che qualcuno non provi a riannodarne i fili per un’altra trama.

«Un romanzo come se ne leggono pochissimi oggi. La scrittu-la è raffinata, vivida, smagliante: sa come gettarci nel mezzo di un campo di battaglia di un secolo fa o nella casa di un vecchio infermo di oggi, facendoci provare quasi fisicamente le sensazioni più intollerabili e le premure più delicate. Quel che lascia il segno è soprattutto il passaggio di testimone fra i protagonisti, padre e figlio: il dovere (che può diventare anche una forma di felicità) di raccontare, sempre, non solo la nostra storia, ma anche quella di chi ci ha preceduti e che, impastandoci in quella stessa storia, ci ha resi ciò che siamo..» Tiziano Scarpa

 

Fatti di Acqua

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Questo libro è l’ultimo di una quadrilogia dedicata agli elementi, in cui il maestro zen Fausto Guareschi ha raccolto discorsi e scritti di una pratica iniziata 50 anni fa. 

L’acqua vi è richiamata come rugiada, pioggia, fiume, mare. Le stesse pagine hanno un andamento liquido, che ora affiora, ora è sommerso e in cui, come nei precedenti volumi, l’identità  del narratore si frantuma in  rivoli ed eteronimi, alternando la riflessione filosofica, al racconto autobiografico.

Dalla Prefazione di Tiziana Verde

 

Là dove sono presenti Buddha e Patriarchi, l’acqua è sempre presente. Dove c’è acqua, Buddha e Patriarchi sempre si realizzano come presenza. A partire da ciò, sempre triturandosi, fanno dell’acqua il loro corpo, il loro cuore e i loro pensieri. Pertanto non è detto nelle scritture buddiste o nelle scritture non buddhiste che l’acqua non salga verso l’alto. La via dell’acqua penetra ovunque su e giù, sia verticalmente che orizzontalmente. 

Dōgen Zenji Shōbōgenzō Sansuikyō.

Recensione Hanaujo Leggere Tutti

I fiori della compassione

di Andrea Coco

Aoyama Shundō è una maestra e monaca zen giapponese, autrice di numerosi libri, che, attraverso l’attività di insegnamento della Via dei Fiori (kadō), contribuisce alla diffusione di concetti dello Zen comprensibili anche al grande pubblico. Nel nostro paese le opere dedicate a presentare la “Via dei Fiori” come via spirituale sono assai poche e, a parte un paio di testi, i libri disponibili analizzano solo l’aspetto tecnico-artistico di questa pratica, tralasciando del tutto o accennando in maniera superficiale alla sua origine e al suo profondo legame con la dottrina buddhista. A compensare questo vuoto interiore, la casa editrice “CasadeiLibri” ha pubblicato in Italia “Hanaujō. I Fiori della Compassione”, un’opera formata da una raccolta di fotografie artistiche, eleganti creazioni floreali create Aoyama Shundō, le quali servono a sviluppare riflessioni che vanno oltre la semplice esposizione artistica e tecnica. Ci si trova di fronte, piuttosto, a una pratica di meditazione, di comprensione di sé stessi, della natura, dello spazio che ci circonda e della nostra percezione, insomma di fronte a un cammino di elevazione spirituale secondo i principi dello Zen. Le bellissime immagini, la poesia e l’apparente semplicità delle riflessioni della Aoyama Shundō, in realtà punto partenza di un viaggio spirituale destinato ad andare lontano, fanno di quest’opera un testo che può essere apprezzato da chiunque, seguaci del Buddhismo come semplici lettori che non abbiano conoscenza o interesse verso questa religione. Testi solo in apparenza semplici ma che per apparire tali hanno richiesto l’intervento di Watanabe Koji, traduttore professionista, che ha una conoscenza profonda del Buddhismo e della cultura giapponese. Insomma, un’opera pregevole che l’intervento grafico della CasadeiLibri ha saputo rendere ancora più preziosa, meritevole di essere letta perché “In ciascuno di noi alberga anche la mente/cuore compassionevole di un fiore ovvero la mente/cuore di Buddha”.

Perché la vita dura un istante… Wall Street Int.

Paesaggio-acqua-cielo-e-neveLa via dei fiori

Perché la vita dura un istante…

24 DICEMBRE 2021,
Wall Street International Magazine
in https://wsimag.com/it/scienza-e-tecnologia

Alcuni anni fa mia madre mi regalò una delicata piantina con fiori azzurro intenso, dal nome comune poco entusiasmante “erba miseria asiatica”: ogni volta che ricevo in dono una pianta, un seme o un bulbo sconosciuto mi riempio di gioia e mi affido a quello che potrà trasferirmi la nuova vita vegetale. Questa tenera erbacea annuale la si apprezza soprattutto al mattino quando sfodera dei piccoli occhi blu con un tocco di giallo al centro, che svaniscono prima che il giorno si concluda. La sua forza vitale sta nel seme capace di riprodursi facilmente, anche più volte nell’arco di una stagione, tappezzando metri e metri di prato incurante di altre che possano competere. Effimera e invadente è temuta dalle giardiniere e dai giardinieri mentre la scopro molto amata da Shundō Aoyama, monaca giapponese, maestra di Sadō, la Via del Tè, e maestra di Kadō, la Via dei Fiori, che dispone la docile piantina, Truyukusa in giapponese e Commellina communis in latino, in una brocca di acqua per accogliere i suoi ospiti alla mattina presto.

“La maggior parte di loro appassisce nel tempo di una chiacchierata durante il tè – commenta Aoyama – una volta sfiorita non fiorirà mai più e proprio perché fugace come goccia di rugiada la vita ci è tanto cara e infinitamente bella”. Quest’ultimo uno degli aforismi in cui l’autrice di Hanaujō. I fiori della compassione1, menziona le parole di Buddha Śākyamuni. Il volume, denso di profondi significati e frutto dell’operosa ed elegante arte giapponese del comporre i fiori, si snoda lungo quattro stagioni, in cui l’autrice gioca e cresce spiritualmente in un costante dialogo con la natura.

La felicità e la pienezza di vita che scaturiscono dalla opportunità di vivere tra i fiori si coglie in ogni pagina a cui Aoyama dedica una considerazione ispirata e nutrita dalla compassione dei fiori. Le incantate montagne di Shinanoji nella prefettura di Nagano è uno dei luoghi in cui l’autrice ha avuto la fortuna di crescere in libertà, un privilegio a suo dire che le ha consentito di apprezzare e conoscere fin da giovane – a cinque anni entra nel tempio buddista Muryōji della scuola Sōtō – i rigogliosi fiori di campo “senza sapere di esserci dentro abbracciata dal cielo vuoto libera come una nuvola”.

Cerca con cura e rigore, guidata da uno spirito di accoglienza e attesa del sacro, la giustapposizione di fiori che la mattina o un momento propizio della giornata si presentano a lei, ricevendone l’essenza fino a renderli ancor più “vivi” e significanti di quanto forse lo erano prima di averli colti. Chiedendo perdono ai fiori per l’impazienza e l’incapacità, li dispone in vasi, contenitori e spazi diversi, anch’essi pieni di significati e simboli della tradizione giapponese. Il cesto per cormorani, il porta dolci a forma di ventaglio, il setaccio, il cesto per l’essiccazione delle pugne, il guscio di un mollusco gigante, i vasi artistici antichi come quello di Kotamba, caratteristico della prefettura di Hyogo (Tomba), quelli invece ricavati artisticamente dal bambù o da legno di cedro o perfino le eleganti ciotole indiane.

Sull’arte e sul sentimento dell’impermanenza (sabi) si sofferma in diversi passaggi dedicati a fiori differenti. Il disporre fiori, perituri e impermanenti, esige uno spirito di rinuncia all’attaccamento alla vita materiale e alle cose in quanto tali; ebbene, tutto ciò che richiede molto impegno, energie e fatica, appare sensato, con una visione occidentale se permane nel tempo a testimoniare un operato, un’ingegnosità, un talento. “Le persone desiderano lasciare qualcosa che testimoni il fatto di essere esistiti”.

Quest’anno, ho potuto apprezzare per la prima volta germogli di bambù colti in giardino, un regalo della natura a primavera inoltrata. Aoyama acutamente osserva:

Il germoglio di bambù, che spunta dalla terra vestendo il Jūnihitoe2, si libera a uno a uno dei suoi strati fino a denudarsi, e attraverso una pratica di svuotamento cresce e si allunga verso il cielo. Nonostante gli uomini cerchino di afferrarlo e trattenerlo”. Iniziare dal vuoto, “dentro l’anello di bambù il vuoto”, è principio per iniziare un cammino di crescita interiore e spirituale; se non mi svuoto liberandomi dai miei pensieri potrò solo perdere le storie più belle, perché esse traboccheranno dalla mia mente troppo affollata. Gli stessi fiori possono riempire solo uno spazio vuoto che accolga l’acqua dove disporli. Fare spazio dentro di sé significa, come in più passi sottolinea l’autrice, preparare la mente ad accogliere nuova linfa e nuova energia.

In autunno, quando disponevo di un giardino, ho sempre provveduto a raccogliere foglie e piccoli rametti secchi per creare un buon compost per la stagione successiva, in una posizione non troppo visibile non so per quale consolidata ragione; tra le innumerevoli intuizioni che ho colto nella lettura de I fiori della compassione, grazie alle preziose e numerose annotazioni esplicative di traduzione e di edizione, scopro che in Giappone chirana è una cavità di forma circolare o quadrata ricavata nel terreno del giardino per raccogliere le foglie morte o i piccoli rifiuti con finalità colturali ma soprattutto estetiche! Penso invece a come nella nostra cultura occidentale le foglie morte siano reiette e quasi maledette da tutti. Benché tutto abbia un inizio e una sua fine “l’apprezzare ciò che cade” significa, per esempio, stupirsi di fronte ad un bocciolo di camelia appena caduto sul muschio dall’indicibile bellezza. Come soffermarsi in novembre sulla vista di un ramo spoglio mentre l’eccentrica foglia di gelso vestita di rosso fuoco si è appena appoggiata sul soffice terreno gelato.

Il Kadō giapponese viene inteso dall’autrice come il disporre la vita intera in un vaso di fiori; “vivere accettando il tutto positivamente e rappresentare simbolicamente questo modo di intendere la vita in un vaso di fiori”. Scorrendo fra le pagine dei suoi mille pensieri e aforismi, meditati, stimolati e nutriti da una lunga esperienza di studio e pratica delle arti in cui è maestra, ci si può perdere e accorgersi di trovarsi come osservatori di un giardino, di un angolo di casa, di un piccolo tempio, creato per noi per godere dei colori, delle forme della natura così ben disposta con arte raffinata da renderci partecipi e commossi. Le immagini sono notevoli fotografie di Kamio Kenshirō e Nagata Yutaka e completano per ogni stagione le numerose pagine che raffigurano una tappa importante del cammino di una monaca cinquantenne che anche dopo molti anni, oggi ne ha ben 88, ha voluto mantenere quel “frammento” di se stessa con la speranza che i lettori potessero prestare ascolto al racconto dei fiori regalandole una gioia inaspettata.

Il suo spirito di accoglienza si ispira, tra i tanti Maestri, anche al pensiero di Kōdō Sawaki Roshi (1880-1965) monaco zen tra i più importanti del XX secolo: “accolgo tutto non faccio scelte”, senza inseguire senza scappare. Questo splendido testo nel suo complesso e articolato contenuto oltre a rappresentare, per chi scrive, l’anelito a percorrere con sincerità la Via degli Uomini e la Via del Buddha, seguendo i maestri della tradizione, dà prova, con elegante abilità, di una conoscenza di fiori e piante a volte insolite per i nostri climi, indicandone nomi comuni in italiano e giapponese e talvolta latini con la classificazione in genere e specie: dalle splendide peonie alle delicate orchidee spontanee, alle bulbose come iris di campo, clematidi selvatiche, calicanti invernali ed estivi dai fiori color porpora e al profumo del mosto, alle delicate acquatiche come Houttuynia cordata chiamata anche foglia cuore o menta di pesce, usata nella medicina tradizionale cinese anche contro malattie virali. Proprio le acquatiche ninfee, così effimere nella loro vita affidata al tempo di una breve fioritura mattutina, non aspettano la mano che tenta di immortalarle con un rapido scatto e questo essere incuranti del nostro tentativo di bloccare quell’attimo ci rammenta le parole del Maestro Eihei Dōgen (1200-1253):

La vita scorre tra luci e ombre
e non si arresta nemmeno un istante.

(Da Shōbōgenzō, cap. 17 “Immo”)3

Note

1 Aoyama Shundō, Hanaujō. I fiori della compassione, CasadeiLibri, Padova 2021, trad. di Watanabe Koji.
2 Il kimono a 12 strati, (Jūni dodici, hitoe strati).
3 Immo, lett. “Ciò che è”, traduce il sanscrito tathatā e rappresenta la natura assoluta e indifferenziata di tutte le cose.

ARTE TRENTINA

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L’Italia dagli anni Cinquanta in poi vista attraverso l’obiettivo della fotografa Marcella Pedone

di Eleonora Dusatti

102 anni, 170 mila fotografie a colori complete di apparato didascalico, 9 mila metri di pellicola filmica 16 mm., sono solo alcuni dei numeri che appartengono alla storia della fotografa e cineoperatrice Marcella Pedone, nata a Roma il 27 aprile 1919 e attualmente residente a Corsico Milanese. Una donna di straordina- ria passione e intelligenza creativa la cui vicenda biografica e professiona- le la rende un unicum all’interno del panorama nazionale.

A lei è dedicato il volume, frutto di tre anni di studi e ricerca, “Il neorealismo di Marcella Pedone. Fotogra- fie e filmati di un viaggio identitario nei paesaggi di un’Italia perduta” (CasadeiLibri Editore, 2020) scritto a quattro mani da Mirco Melanco e Romina Zanon con il contributo di Simona Casonato, curatrice delle collezioni Media, ICT e Cultura Di- gitale del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. Il prof. Mirco Melanco è docente universitario presso il Diparti-mento dei Beni Culturali dell’Università degli studi di Padova, regista di documentari e videoinstallazioni, saggista di storia e teoria del cinema; Romina Zanon è dottoranda di ricerca in Storia, Critica e Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università degli studi di Padova, artista visiva, saggista di fotografia, cinema e collaboratrice di Arte Trentina.

La loro ricerca si propone di ricostruire la biografia di Marcella Pedone, individuare ed analizzare le linee portanti del suo operato attraverso la selezione di circa 50 fotografie considerate rappresentative del lavoro svolto nel corso della sua carriera, e leggere la storia dell’Italia rurale e industriale a cavallo del boom economico. Sembra impossibile che un talento simile non sia stato incluso nella storia della fotografia, che il suo nome non sia annoverato fra gli autori che hanno segnato i lavori principali della fotografia italiana e del cinema documentario. Il libro nasce proprio per colmare queste evidenti lacune storiografiche che non hanno considerato l’operato di Marcella Pedone, la quale rappresenta invece una indiscutibile unicità anche per il coraggio dimostrato nell’affrontare un percorso di vita avventuroso contando unicamente sulle proprie forze.

Marcella Pedone discende da una solida famiglia dell’al ta borghesia imprenditoriale romana, sostenuta dai genitori intraprende una formazione di tipo umanistico a cui affianca gli studi di pianoforte e composizione al conservatorio; si iscrive alla Facoltà di Lingue presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia con l’obiettivo di lavorare come interprete ma proprio in Germania, dove si reca per perfezionare la conoscenza della lingua tedesca, scopre la sua strada. A Norimberga nel 1952 acquista la sua prima macchina fotografica, una Rolleiflex 3,5 Tessar, e da qui prende il via la sua attività di fotografa e di viaggiatrice, già in parte iniziata dopo essere stata a Vienna un periodo di sei mesi, aver insegnato come maestra elementare per un paio d’anni in Libano e aver vissuto un anno a Londra, prima di approdare appunto in Germania. Inizia a praticare la fotografia come forma di conoscenza e scrittura etnografica volta alla comprensione reale della società italiana affidandosi esclusivamente al suo innato istinto artistico e musicale.

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La fotografia non costituisce mai per lei il primo approccio alla realtà, ma il risultato di esperienze di osservazione e conoscenza, per questo studia i luoghi che intende visitare e lo fa attrave rso fonti bibliografiche ed orali, ma anche soggiornando nei luoghi scelti e partecipando alle dinamiche umane delle persone che intende raffigurare. Nell’arco della sua lunga carriera ha costruito un archivio visivo di grande rilevanza che mostra i profondi mu- tamenti subiti da società e paesaggi nel periodo che va dal 1950 al 1990.

Ha dimostrato di possedere due qualità esclusive: rea- lizzare fotografie neorealiste a colori in decenni in cui la fotografia era esclusivamente in bianco e nero, e avere il coraggio e la capacità di viaggiare in solitaria su tutto il territorio italiano, prima in autostop, poi in auto con una tenda per dormire sistemata sul tetto e infine in caravan, lottando contro pregiudizi e stereotipi per svolgere un mestiere ritenuto all’epoca prettamente maschile. Basti pensare che arrivando in Molise con il suo caravan, un gruppo di donne vedendola alla guida le consigliarono di confessarsi ritenendo quel gesto maschile un peccato mortale. Ad un corso di fotografia a colori organizzato dalla Kodak in Germania nel 1965 fu l’unica donna a parteciparvi fra decine di uomini. Ha affrontato tutte le difficoltà incontrate sul suo cammino senza porsi mai dei limiti: dalle più alte cime delle montagne fin giù nelle profonde miniere, trascorrendo lunghi periodi con i contadini e i pescatori che si trovavano disorientati di fronte ad una donna così determinata e avventurosa. In più occasioni ha addirittura temuto per la propria vita: ca-

dendo nella camera della morte di una tonnara siciliana, rimanendo coinvolta in una sparatoria in Calabria a cui scampò rifugiandosi sotto un’automobile, e rischiando di essere uccisa per aver inconsapevolmente fotografato il corteo funebre di un pericoloso boss mafioso.

Dal nord al sud, dai pascoli delle montagne dolomitiche alle pianure dell’area veneto-lombarda, dalle colline um- bre e toscane al mare, anno dopo anno sono passati da- vanti al suo obiettivo gesti, volti, sguardi, paesaggi e culture, architetture civili e religiose, riti e feste, delineando il ritratto completo di un Paese in bilico tra arretratezza e modernità. Nella più assoluta libertà espressiva, priva di qualsiasi subordinazione agli scopi di un committente, Marcella con i suoi scatti offre uno sguardo inedito del nostro Paese dipingendo in modo rigoroso il ritratto di un’intera nazione nelle sue componenti paesaggistiche, sociali, economiche e folcloristiche.

I suoi viaggi non si sono limitati ai soli confini europei, ma si sono spinti fino a Usa, Giappone, Malesia, Singa- pore, Cina, Tunisia, Algeria, Thailandia fino agli albori del 2000 quando si ritira nella sua casa-studio, dove riprende la strada della musica e della poesia.

Da qui sabato 6 febbraio si è collegata con la trasmissione “FPmag talk – dialoghi sulla fotografia” a cura del direttore responsabile di FPmag Sandro Iovine, giornalista, critico e curatore, che le ha dedicato la prima puntata andata in onda sulla pagina Facebook del programma. Sono intervenuti gli autori del libro Mirco Melanco e Romina Zanon, insieme hanno illustrato la figura di Marcella Pedone e l’importanza che ha rivestito all’interno del panorama artistico italiano.

Per gentile concessione del Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Mila-

no, le loro parole sono state accompagnate dalle straor- dinarie fotografie di Marcella Pedone, donate dall’artista stessa nel 2017; alla Cineteca Italiana sono andati invece i video e un complesso di hardware fotografico e audio- visivo che consta di circa cento elementi fra macchine fotografiche, obiettivi e accessori vari, sistemi di proiezione fotografica e cinematografica, magnetofoni, pelli- cole. Nel 2020 Pedone ha aggiunto a questa collezione anche l’ultima delle proprie roulotte.

Si ha avuto così il privilegio di ascoltare dalla sua voce i racconti che stanno dietro ad alcuni dei suoi scatti: Vedova bianca a Erice, 1955.

“In una Erice poverissima, con le strade pavimentate alla romana, una vedova avvolta in uno scialle nero va in chiesa a consolarsi perché il marito è partito per la Germania per lavorare alla Volkswagen lasciando mo glie e figli a casa. Per un po’ di tempo si è fatto sentire, poi è sparito e non ha più fatto ritorno: si è sposato con un’altra donna ed ha avuto altri figli, senza dire nulla e contravvenendo alle leggi sociali e morali. La donna lo sapeva ma non l’ha denunciato, si è adattata alla sua vita di vedova bianca”. Verso la mattanza del tonno. Saluto al sole, Mazara del Vallo, 1965. “In Sicilia vicino a Tra- pani, allora il più importante porto peschereccio italiano, a 5 km dalla costa dove è stata installata la camera della morte per la pesca del tonno, gli uomini all’alba si tolgo- no il cappello per salutare ed onorare il sorgere del sole. Quale tecnica ho utilizzato? Ho colto l’attimo”.

I ricordi ed i sentimenti sono fluiti liberamente: “Ho vissuto la mia vita come l’unica strada percorribile che vedevo aperta davanti a me” – ha raccontato – “Non ho ragionato sulle conseguenze, su ciò che avrei affrontato, l’ho imboccata senza riflettere troppo. Forse questa era una vocazione, non avrei potuto vivere diversamente; non mi sono mai venduta per nessun prezzo e per nessu- na lusinga al mondo, ho fatto solo ciò che il mio istinto di purezza mi dettava. Non ho mai cercato la fama né il denaro, mi sono solo impegnata ad essere rigorosa nel lavoro che svolgevo”.

E poi ancora: “La mia vita è stata un’eruzione spontanea di qualcosa che avevo dentro ed è venuto fuori donan- dosi volentieri. La fotografia si presentava come una so- luzione di vita varia ed avventurosa. Il mio motto infatti era “ogni giorno qualcosa di nuovo” e questo ha fatto la fotografia, ha dato un senso ad ogni mio giorno. Mi meraviglio dell’apprezzamento che si fa intorno alle mie foto. Essendo abituata ai grandi capolavori della musica, non ho mai pensato che il mio lavoro fosse così impor- tante. Io vorrei poter dare ancora di più, ma ormai sono giunta alla fine del mio mandato sulla Terra, altrimenti mi farei in quattro per donare ancora”.

Le persone che hanno seguito la puntata si sono collegate non solo dall’Italia, ma addirittura dalla Thailandia e dalla California. Tutti hanno avuto parole di elogio e stima per Marcella Pedone, grande donna ed artista. Ascoltando i vari messaggi Marcella ha affermato di trovare conforto dopo una vita in cui non sono mancate le amarezze: “Non so dire che grazie, le ultime fasi della mia vita mi

danno delle consolazioni che non ho mai avuto prima”. Un ascoltatore ha lasciato un commento breve, ma signi- ficativo e profondo: “Hai migliorato il mondo, grazie”. A lui Marcella ha risposto: “Non lo sapevo, grazie. Colgo l’ultima splendida rosa della stagione”. E si è commossa.■

Nel numero 1 di ottobre 2019, Arte Trentina ha pubblicato l’articolo di Romina Zanon Marcella Pedone: viaggiatrice, fotografa e cineoperatrice. Viaggio nell’Italia dei mondi perduti tra antropologia, folklore e paesaggio incentrato sul nucleo di immagini scattate in Trentino Alto Adige.

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