Tanizaki Jun’ichirō

Tanizaki Jun’ichirō 谷崎 潤一郎

Jun’ichirō Tanizaki (1886-1965) non ha senza dubbio ormai bisogno di presentazioni: è, con Mishima e Kawabata, uno dei romanzieri giap-ponesi più noti, in tutto il mondo. Come altri mostri della letteratura mondiale, ha lasciato un’opera gigantesca, giocando con stili, linguaggi e generi, passando dal romanzo letterario vero e proprio al thriller, al romanzo storico e al racconto onirico.

Numerosi suoi romanzi, novelle e saggi sono tradotti nelle lingue occidentali, ed è stato il primo scrittore giapponese a vantare un tomo a suo nome nella Pléiade. Molti testi della sua proteiforme opera restano tuttavia ancora da tradurre, tra i suoi lavori meno conosciuti ma talvolta non inferiori alle opere maggiori.   (Ryoko Sekiguchi)

Tra le sue numerose opere ricordiamo:

  • Neve sottile (Sasame yuki, 1948), trad. Olga Ceretti Borsini e Kizu Hasegawa, Milano, 1961; Longanesi
  • Diario di un vecchio pazzo (瘋癲老人日記, Fūten rōjin nikki, 1962), trad. Atsuko Ricca Suga, Milano: Bompiani 1984
  • La madre del generale Shigemoto (少将滋幹の母, Shōshō Shigemoto no haha, 1950), trad. Guglielmo Scalise, Milano: Mondadori 1966
  • Vita segreta del signore di Bushu (武州公秘話, Bushukō hiwa, 1935), trad. Satoko Toguchi e Atsuko Ricca Suga, Milano: Bompiani 1970; Garzanti
  • La croce buddista (卍, Manji, 1928), trad. Lydia Origlia, Parma: Guanda 1982; Milano: TEA 1992.
  • Libro d’ombra (陰翳礼讃, In’ei raisan, 1933), a cura di Giovanni Mariotti, trad. Atsuko Ricca Suga, Milano.
  • Il demone (in due parti: Akuma e Zoku Akuma, 1912), trad. di Lydia Origlia, Milano: ES  1995
  • Divagazioni sull’otium e altri scritti, a cura di Adriana Boscaro, Venezia: Cafoscarina 1995.
  • La morte d’oro (金色の死, Konjiki no shi, 1916), a cura di Luisa Bienati, Venezia: Marsilio 1995
  • I piedi di Fumiko (富美子の足, Fumiko no ashi, 1919), a cura di Luisa Bienati, trad. Luisa Campagnol e Luisa Bienati, Venezia: Marsilio 1995
  • Yoshino (吉野葛, Yoshino kuzu, 1931), a cura di Adriana Boscaro, Venezia: Marsilio, 1998
  • Sulla maestria (Geidan, 1933), a cura di Gala Maria Follaco, Milano: Adelphi (coll. “PBA” n. 659), 2014

Recensioni de Lo specchio del gesto

Lo ‘specchio’ e il ‘gesto’ di Coomaraswamy

Corriere Nazionale Cultura 31 Gennaio 2017
di Pierfranco Bruni

Lo specchio e il gesto di Ananda Kentish Coomaraswamy a 70 anni dalla morte e a 140 dalla nascita. Non sempre è possibile specchiarsi in uno specchio. Non sempre è possibile afferrare un gesto.

Ananda Kentish Coomaraswamy nato a Colombo il 22 agosto del 1877 è morto nel Needham il 9 settembre del 1947. Il mistero indiano nell’arte è stato il suo viaggiare tra le griglie simboliche di un Oriente nel quale il suo esistere si è consolidato e un Occidente la cui misura degli spazi è una trasparenza delle occasioni delle eredità greche e dei riti. Una trasparenza anche dal punto di vista etno – antropologico che pone in essere questioni che esulano da aspetti estetici per penetrare in una filosofia dell’essere.

La mano che non vedi ha lo sguardo che possiedi. Sul filo di questa lama cammino senza timore. Mai chiedendomi cosa è la vita e mai sostando nello spazio delle domande già poste e mai risolte. Senza mai far rumore, con l’insegnamento di Coomaraswamy, perché so che il silenzio è sempre l’esplosione del necessario e il rumore e il tentativo dell’inutile. La magia è nella filosofia di fare dell’arte il necessario per diventare viaggiatori di simboli.

L’arte come essere e non solo come estetica. L’Oriente come identità dell’essere dentro la visione delle arti. È in questo incastro magico – sacrale che si giocano gli orizzonti di una alchimia, in cui l’Oriente ha non virtuosismi ma Sapientia del pazientare nell’osservazione della Parola che è Incipit di conoscenza osservando sempre gli occhi del serpente, simbolo primordiale, e lo sguardo dell’aquila, simbolo “cerchiatore”, (chiude sempre il cerchio).

Dal suo “indagare” tra il mito e il Buddismo, il cammino conduce alla trasfigurazione dell’arte nel vissuto della natura (penso a La trasfigurazione della natura nell’arte, Rusconi, 1976 e prima a Sapienza orientale e cultura occidentale, Rusconi, 1975). Un penetrare nel sottosuolo delle caverne dell’anima che non nascondono, ma rivelano.

La rivelazione è un grande brivido che tocca le corde di un magico avvertire. Si avverte perché è già tutto dentro di noi come cesellatura lunare di un mito oltre l’archetipo della conoscenza. Oltre tale dimensione c’è la visione che attraversa comunque il labirinto e grazie al brivido si taglia l’immaginario (penso a Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, 1987).

La figura di Budda diventa fondamentale sia come figura sacrale, il personaggio e il divino nel camminamento verso l’Illuminazione, sia come tradizione di un percorso che lega il mistero dell’arte indiana alla dottrina buddista vera e propria in termini “filosofici” (penso a La vita e l’opera di Sakyamuny Buddha, Il cerchio, 1992, a Vita di Buddha, Milano, SE,1993 e a Buddha e la dottrina del buddhismo, Luni, 1994).

La questione centrale resta il colloquiare tra il tempo e l’eternità. Ovvero consiste nel vivere in quel “Ho trascorso un istante che è durato un’eternità…”. Un’indicazione fondante che intreccia il rito della tradizione come anima penetrante con il sacrificio che si legge nel rito stesso sino a definire il cammino come il lungo cammino verso l’infinito che si veste di eterno. Sono i simboli che si decifrano e si dichiarano.

Così come nella metafora del “grande brivido” che è espressione dell’essenza di tutto: “In ultima analisi, il rito, come ad esempio quello dell’antico Sacrificio Vedico, è un procedimento interiore, di cui le forme esterne sono soltanto un supporto, indispensabile per coloro che stanno ancora percorrendo il cammino e ancora non ne sono giunti al termine, ma superfluo per coloro che ne hanno già raggiunto la fine, e che, per quanto possano ancora essere nel mondo, non sono più del mondo. Nel frattempo, non esiste pericolo o ostacolo maggiore dell’iconoclastia prematura di coloro che ancora confondono la propria esistenza con il proprio essere, e che ancora non hanno “conosciuto il Sé”; questi sono la stragrande maggioranza, e per loro il tempio e tutte le sue raffigurazioni servono da indicazioni lungo il cammino” (Ananda K. Coomaraswamy, in Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, cit.).

Infatti è necessario non dimenticare che dove c’è il mistero non si può chiedere alla ragione di avere un senso. Le culture non diventano processi culturali ma identità originaria attraverso le quali gli uomini e i popoli si fanno civiltà. Le civiltà non si reggono con la storia, ma con le impalcature degli archetipi, dei miti, dei simboli che diventano metafisica dell’esistere e ontologia della metafisica del tempo. In un tale viaggio il mistero è il tutto nell’alchimia di una magia che recupera l’esistenza stessa come spiritualità e come eredità di un testamento onirico.

Un testamento in cui la tradizione ha le radici di una antropologia archetipale fatta di simboli e segni, tracce e scavi di memoria in un tempo di spazi e di eterne rappresentazioni magiche. Uno spazio prospettico che indirizza e nel quale si specchiano i codici dell’anima. Tra i quali “L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere” (James Hillman). Ananda Kentish Coomaraswamy in una filosofia dell’anima ha posto il centro del suo camminamento come se fosse “lo specchio del gesto” (penso a Lo specchio del gesto, CasadeiLibri, 2011) in un distillato in cui lo sguardo ha gli occhi dell’anima e vivono, gli occhi, dentro il labirinto spirituale, con l’infinita fine del tempo e dell’eterno, tra l’immortalità e l’orizzonte. Si vive di specchi di gesti di tramandi negli occhi imperturbabili di un messaggio di tempo e di un pensiero di eternità che è il contemplante Divino che vive la Tradizione.

Ma il tempo può sempre cercare di imitare l’eternità.

Recensioni Club dei buongustai

“Il club dei buongustai”

di Gabriele Ottaviani

Non c’è altra vera dieta che quella di mangiare la propria fame.

Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi, Jun’Ichirō Tanizaki, Kōzaburō Arashiyama, Osamu Dazai, Rosanjin Kitaōji, Shiki Masaoka, Kenji Miyazawa, Kafū Nagai, CasadeiLibri editori, a cura di Ryoko Sekiguchi, traduzioni di Ryoko Sekiguchi, Patrick Honnoré e Lorenzo Casadei. Illustrazioni La Cocotte. Siamo quello che mangiamo, si sa. E nutrirsi è fondamentale. Senza cibo non c’è vita. E al mondo c’è chi spreca l’impossibile. E chi letteralmente fa la fame. Il cibo è cultura. Identità. Storia. Appartenenza. Famiglia. Un atto d’amore. In questa splendida, ricca, dotta antologia ogni cosa è illuminata, ogni emozione è raccontata. Senza retorica, con stile, garbo, scintillante brillantezza. Da non perdere.

Il club dei buongustai

di Andrea Coco (Leggere Tutti, marzo 2018)
Mangiare è un tema immancabile nella narrativa giapponese moderna e contemporanea, come nella fiction e nei manga. Un momento così importante da costituire una sorta di marchio di fabbrica dell’industria culturale nipponica. A prendere atto dell’importanza del cibo e del mangiare nel paese del Sol Levante è stata Ryoko Sekiguchi, poeta e traduttrice, che dal 1997 vive a Parigi e ha pubblicato opere sia in lingua giapponese che in francese. In occasione di una serie di incontri mensili sul tema cucina e scrittura, Ryoko si è resa conto di non aver incontrato alcuna difficoltà nel trovare delle storie adatte da sottoporre al pubblico, al contrario di aver provato l’imbarazzo della scelta. Fino a prendere preso atto, che nel suo paese di origine il cibo si associa molto bene a qualsiasi genere letterario, una specie di ciotola ideale per contenere il piatto (il genere letterario) che si vuole descrivere. Nasce così questa raccolta, che prende il nome dal titolo di un’opera di Jun’ichirô Tanizaki, Il club dei buongustai, dove sono riuniti racconti culinari dal XII° secolo ai giorni nostri, ognuno dei quali affronta un aspetto della vita umana. Abbiamo così i ricordi della propria vita legati indissolubilmente al sakè (Osamu Dazai); la descrizione della preparazione del sushi (Kanoko Okamoto), un procedimento per ricordare la madre; mentre attraverso le cento ricette di tofu scritte da un anonimo del XVIII° secolo, così simili a poesie, la testimonianza di quanto la cultura culinaria si fosse diffusa nella società nipponica. A seguire la breve impressione della cucina occidentale (Rosanjin Kitaōji) ovvero il racconto di un pranzo presso il celebre ristorante francese la Tour d’Argent; mangiare come segno che si è ancora vivi (Shiki Masaoka); due storie di funghi, scritti da un anonimo del XII° secolo, utilizzati come arma per uccidere e come forma di esperienza mistica; il rapporto tra la fame e l’immaginazione (Kōzaburō Arashiyama) ovvero l’importanza della fame come forza creatrice di idee. E ancora l’offerta del cibo come nutrimento sacro da parte dello scrittore (Kenji Miyazawa) alla sua giovane sorella; la cucina come segno di appartenenza sociale (Kafū Nagai) in un Giappone post bellico. Per ultima la storia di Jun’Ichirō Tanizaki, che riunisce quanto affrontato nei singoli racconti e mescola gastronomia e sensualità in un ricerca ai limiti dell’erotismo. Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi è un esempio di quanto complesso e profondo sia il pensiero nipponico riguardo il cibo e al senso della vita.

AA.VV.
Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi
A cura di Ryoko Sekiguchi
Traduzione dal giapponese di Ryoko Sekiguchi e Patrick Honnoré
Traduzione dal francese di Lorenzo Casadei
Casadeilibri, 2017
pp. 160, euro 16,00

Recensioni
L’Islam tradizionale nel mondo moderno

Il Padova del 25/03/2007

Dalla Prefazione alla prima edizione: «Il crescente interesse nei riguardi dell’Islam, manifestato negli ultimi anni da molti occidentali, invece che favorirne la conoscenza nei suoi molteplici aspetti, ha spesso creato una certa confusione che la passione suscitata dall’argomento e i vari interessi di parte hanno ulteriormente alimentato. Fino a qualche decennio fa i musulmani potevano lamentarsi unicamente delle deformazioni presenti negli studi di orientalisti e islamisti, o della scarsa attenzione da parte occidentale per tutto ciò che era Islam. Oggi, grazie al sincero tentativo di alcuni musulmani di riaffermare il carattere originario della propria tradizione e di preservarla, ma anche, sfortunatamente, in seguito alle sgradevoli strumentalizzazioni dell’Islam da parte di varie forze politiche, quest’indifferenza è sicuramente diminuita. Tuttavia, nuovi fraintendimenti sono andati ad aggiungersi a quelli “classici” degli orientalisti.
Una notevole quantità di articoli scritti in nome dell’approfondimento scientifico (o che si presentano come tali) sono ormai disponibili; esiste una lettura di sinistra, spesso esplicitamente marxista, che dalla sfera propriamente comunista si è diffusa in Occidente e anche in alcune aree del mondo islamico; c’è poi il sedicente risveglio islamico detto “fondamentalista” che è oggetto di molta attenzione mediatica in tutta Europa, giocando un ruolo non trascurabile, sia a parole che nei fatti, nella formazione dell’immagine dell’Islam in Occidente.
Come risultato di queste e altre interpretazioni contemporanee, il compito di comprendere l’Islam così com’è stato vissuto e conosciuto tradizionalmente attraverso i secoli diventa sempre più arduo. C’è chi ne dà un’interpretazione marcatamente occidentale, chi una modernista e chi si occupa dell’ ampio spettro di fenomeni che di solito vanno sotto il nome di fondamentalismo. Ma quanti parlano dell’Islam tradizionale che, nel corso di quattordici secoli di storia, è stato rappresentato da teologi e giuristi, filosofi e scienziati, artisti e poeti, sufi e semplici fedeli? L’Islam che, di fatto, ancora oggi, rappresenta la maggioranza dei musulmani, dall’Atlantico al Pacifico?
È per colmare questa lacuna, per chiarire cos’è l’Islam autentico, che questo libro, come del resto anche tutti gli altri nostri lavori, è stato scritto. Quasi ogni giorno sorge qualche nuova questione sulla quale è richiesto il punto di vista islamico. Generalmente, la risposta è data in senso moderni sta o “fondamentalista” da chi, solo perché islamico, pensa di avere le credenziali per farlo, oppure in chiave accademica da qualche islamista occidentale che, a dire il vero, a volte lo fa in modo più equilibrato, proprio perché non è personalmente coinvolto nei conflitti intellettuali che agitano il mondo musulmano. In ogni occasione in cui ci è stato possibile, noi abbiamo cercato di fornire il nostro modesto contributo ad una migliore conoscenza dell’Islam in Occidente presentando il punto di vista tradizionale.
In alcuni dei nostri libri precedenti, specialmente in Islam and the Plight of Modern Man e in Islamic Life and Thought ,abbiamo già presentato degli studi su numerosi aspetti dell’Islam tradizionale di fronte al mondo moderno. In questo libro continuiamo a farlo concentrandoci maggiormente sul contrasto tra l’Islam tradizionale, il suo revival e le manifestazioni “fondamentaliste” caratteristiche dell’epoca contemporanea; a tal fine abbiamo preso in considerazione alcune istanze particolarmente significative per il mondo musulmano stesso e per la sua comprensione da parte dell’Occidente, a cominciare dallo studio della natura dell’Islam tradizionale propriamente detto contenuto nel Prologo.
La prima parte del libro si occupa degli aspetti di base della tradizione islamica attualmente più dibattuti, a cominciare dal significato di jihad, un termine ormai entrato nel lessico occidentale ma ampiamente frainteso e spesso intenzionalmente interpretato negativamente. Poi si passa allo studio dell’etica del lavoro così com’è descritta nelle fonti tradizionali e vissuta all’interno delle società tradizionali; distinguendo tra i due piani, cerchiamo di sottolinearne la validità permanente. Nel saggio successivo l’attenzione è volta all’ostica questione della relazione tra maschile e femminile, studiata sia nella sua dimensione profonda che nei suoi risvolti sociali. Senza arrenderci ai clichés correnti ma accettando la sfida posta all’Islam circa il ruolo e la posizione delle donne, abbiamo cercato di fornire una conoscenza delle basi metafisiche e psicologiche della relazione uomo/donna sulla quale, secondo la concezione islamica, si reggono tutte le relazioni sociali. Alla fine della prima parte, cerchiamo di chiarire cos’è lo Sciismo sviluppatosi nella Persia safavide come religione di Stato, al fine di fornire il bagaglio culturale necessario ad un approfondimento teologico e storico. Ciò è indispensabile per capire il ruolo dello Sciismo nell’Islam di oggi e nell’intero Medio Oriente.
La seconda parte entra direttamente nel merito del confronto tra l’Islam tradizionale e il modernismo, a cominciare da uno studio generale sull’Islam nel mondo musulmano contemporaneo e sui differenti rapporti esistenti tra le diverse forze e correnti che lo attraversano: tradizionali, “fondamentaliste” e moderniste. Seguono alcune riflessioni sulla relazione tra gli aspetti intellettuali dell’Islam tradizionale e il pensiero moderno, e sull’impatto che ha la tradizione sulla vita intellettuale dei musulmani d’oggi. A conclusione un capitolo è dedicato a un’istanza centrale nella lotta tra le varie forze intestine dell’Islam: il significato dello “sviluppo” nel contesto dei valori islamici.
La terza parte, la più lunga, è volta allo studio delle tensioni presenti, in diversi contesti culturali, tra l’Islam tradizionale e il modernismo. Ci occupiamo principalmente della formazione culturale, tema capitale in molti paesi islamici e in particolare della filosofia, il cui insegnamento, di importanza cruciale, riflette il conflitto tra modernismo e tradizione. Infine, parliamo di architettura e urbanistica, due discipline strettamente correlate che sono oggetto di uno scontro e di un dibattito appassionato nel mondo islamico, e che hanno un grande impatto religioso e culturale sulla vita dell’intera comunità.
La parte finale di questo libro è dedicata a tre interpreti occidentali eccezionali dal punto di vista del loro contributo agli studi sull’Islam; il primo è un cattolico [Louis Massignon], il secondo un protestante [Henry Corbin] e il terzo un musulmano [Titus Burckhardt]. Questa parte, oltre a cercare di sottolineare il valore dell’opera di questi studiosi, punta a dimostrare che l’Islam tradizionale, contrariamente al modernismo e al “fondamentalismo”, giudica gli studi occidentali in base a criteri oggettivi e non etno-geografici. Infatti, la prospettiva tradizionale, pur rimanendo critica verso le deformazioni contenute negli studi degli orientalisti, non si permette asserzioni offensive solo per il fatto che l’autore preso in considerazione è un occidentale; tanto meno loda, gravata da qualche complesso di inferiorità, uno studio sull’Islam semplicemente perché scritto in una qualsiasi lingua occidentale o perché usa tutto il classico armamentario della ricerca universitaria moderna. Questi saggi sperano di chiarire cosa la ricerca occidentale sull’Islam potrebbe fare per favorirne una migliore comprensione, basata su empatia e affetto, senza che vengano compromessi il rigore della ricerca né (ciò che è ancora più importante) sminuito quanto è dovuto al vero.
Benché il futuro, in una prospettiva islamica, appartenga a Dio e Lui solo ne abbia piena conoscenza, c’è oggi un tale interesse verso l’avvenire del mondo islamico e per le varie proiezioni possibili a partire dall’osservazione delle tendenze attuali, che abbiamo dato spazio anche a questo argomento scottante. L’ultimo saggio, infatti, si occupa delle tendenze attuali nel mondo musulmano e di come queste potranno svilupparsi nell’immediato futuro. Abbiamo scritto tutto questo nella piena consapevolezza che tutto lo scibile umano è incapace di prevedere i precisi momenti e i modi in cui la volontà di Dio si manifesta nella Storia. Bisogna dunque avere l’accortezza di riconoscere che di queste cose Dio è il più sapiente. […] Speriamo che questa raccolta di saggi contribuisca ad una migliore conoscenza in Occidente dell’Islam tradizionale e anche che possa renderne gli insegnamenti più facilmente accessibili a quei musulmani che, per educazione e formazione, li troverebbero troppo ostici se espressi con un linguaggio tradizionale. Ogni passo verso una migliore comprensione dell’Islam e dell’Occidente non può che essere di reciproco giovamento per entrambi i mondi, i cui destini sono intimamente correlati, in modi forse non sempre evidenti ma che abbracciano la vita spirituale, artistica e intellettuale, così come la politica e l’economia, vale a dire tutto quello che costituisce il tessuto stesso della vita interiore e della storia umana che si dipana nel tempo e nello spazio».
Una Nota editoriale su «Cultura tradizionale e anti-tradizione» opportunamente puntualizza, a conclusione del volume ed a mo’ di postfazione, il significato e la collocazione dell’opera di Nasr rispetto alle più appariscenti correnti dell’odierno fondamentalismo islamico, colto nei suoi aspetti anti-tradizionali, e ne registra i limiti di consonanza con le individualità che in Occidente hanno operato nel corso degli ultimi cento anni per una reviviscenza del pensiero tradizionale. Essa va segnalata perché esplicita aspetti forse non immediatamente recepibili dal lettore attraverso la lettura di questo singolo volume e ne favorisce l’inquadramento in un contesto più complesso.
Al di là di qualsiasi valutazione critica, favorevole o sfavorevole, si pone una domanda all’Editore: perché non facilitare l’approccio del lettore ad un’opera non priva di asperità, completandola mediante la modesta fatica richiesta dalla compilazione di un indice dei nomi?

Da Archiviostorico

IL LIBRO – Scritto da uno dei più noti studiosi islamici, questo libro dà una chiave di lettura dell’Islam contemporaneo dal punto di vista tradizionale che merita d’esser meditata da tutti coloro che si interessano alla questione islamica. Il volume, che spazia dalla politica all’urbanistica, dalla pedagogia alla gnosi, offre infatti un inedito angolo visuale secondo il quale il fondamentalismo appare come l’altra faccia del modernismo.

 

DAL TESTO – “La tradizione è […] come un albero le cui radici affondano, attraverso la rivelazione, nella Natura divina da cui proviene la linfa che, nei secoli, ne ha alimentato il tronco e i rami. Nel cuore dell’albero della tradizione abita la religione. La sua linfa è la grazia ovvero la barakah che, originata con la rivelazione, rende possibile la vita dell’albero. La tradizione implica il sacro, l’eterno, la verità immutabile, la saggezza perenne e l’applicazione continua dei principi immutabili alle mutevoli condizioni di spazio e tempo. La vita terrena di una rivelazione può esaurirsi. Anche le civiltà tradizionali infatti decadono ma normalmente questa decadenza, come pure la presenza di scuole di pensiero in contrasto tra loro, resta nell’ambito della tradizione. Ciò che invece è direttamente opposto alla tradizione è la contro-tradizione […] e, naturalmente, il modernismo, senza la cui esistenza non ci sarebbe bisogno del termine tradizione. Se i tradizionalisti insistono su questa opposizione assoluta tra tradizione e modernismo è precisamente perché la vera natura del modernismo crea nel campo della religione e della metafisica un’immagine sfocata all’interno della quale una mezza verità appare come verità e di conseguenza l’integrità della tradizione viene compromessa”.

Recensioni La via del Labirinto

Il Sole 24 ore del 6/04/2008
In principio era il piacere
di Giuliano Boccali

Alain Daniélou svelò in Occidente il segreto delle rappresentazioni erotiche dei templi indiani; il «kama», la forza primordiale che lega gli amanti e fa incontrare individuale e universale

Figlio di un ministro anticlericale e di una madre cattolica attivissima, fratello di Jean futuro cardinale e accademico di Francia, ne1 1936 Alain Daniélou (Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 1907 – Lonay, 27 gennaio 1994) ha alle spalle esperienze tanto intense quanto disparate: frequentazioni d’avanguardia, lezioni di danza con Nicolas Legat, il maestro del “volante” Nijinski, viaggi esotici: l’Afghanistan, poi l’Algeria dalla quale il Governatore generale lo espelle per la non celata simpatia verso gli “indigeni”, purtroppo sequestrandogli il diario mai più ritrovato; Calcutta nel 1935 in auto, una Ford spider! Più volte il Bengala, per ascoltare Tagore nella sua università, a Shantiniketan.

Irrequieto e mondano, curioso di Paesi lontani, ma certo anche di quello della propria interiorità, nel 1936 è invitato a Hollywood dal celebre (e per l’ epoca molto bizzarro) dietologo Gayelord Hauser; è il pretesto per un giro del mondo, che Pierre Gaxotte, caporedattore di «Candide», lo incarica di narrare. Quei resoconti con fotografie del suo compagno di viaggio Raymond Burnier e disegni dello stesso Daniélou sono ora pubblicati in italiano da CasadeiLibri con il titolo Il giro del mondo ne1 1936. Con scelta felice, l’editore accoppia a quest’uscita un breve testo, La scoperta dei templi. Arte ed eros dell’India tradizionale, che raccoglie tre saggi per l’epoca (anni Trenta, poi 1947-1949) davvero precorritori. Anche questo volumetto è impreziosito dalle fotografie di Burnier, che furono di fatto le prime a rivelare al mondo le fantasmagoriche figure dell’architettura e della scultura templare del sub Continente.
Rapidi ma non frettolosi, arguti senza mai essere acidi, i diari del viaggio affidano al colpo d’occhio delle visioni e all’immediatezza delle emozioni considerazioni mai banali. Sintetici e a piatto, i disegni ricordano vivacemente quelli di alcuni maestri coevi, fra i quali perfino Matisse.
La maggior parte dei capitoli è dedicata ai Paesi asiatici: il Giappone «proprio come lo hanno descritto i suoi pittori. Gli abeti si contorcono con arte e, in lontananza,il FujiYama galleggia su una piana di lacca»; la Cina a Shanghai, dove la plebe immensa costituisce come «un humus fecondo (dal quale) si innalza la città più moderna del mondo, con i suoi innumerevoli grattacieli, gli alberghi di lusso, i locali notturni, i malavitosi e le sue incalcolabili ricchezze» (scrive, ricordiamo, nel 1936). Eletta è l’India, come si vedrà, dove l’arrivo a Benares provoca una considerazione indimenticabile sulle reazioni di chi «è uno spirito borghese» e dal viaggio non imparerà nulla o di chi invece, sentimentale e dotato di rendite, «si precipita alla Società Teosofica per indossare un saio, prudentemente disinfettato da ogni microbo…».

Caustica questa volta e molto condivisibile, Daniélou il diritto a questa considerazione se lo guadagna intero: smette i panni dell’intellettuale europeo colto e snob, di grande famiglia e di carattere ribelle; per tre lustri riveste a Benares quelli del discepolo, sottoponendosi a un insegnamento tradizionale. Si proibisce per anni di usare altro che la hindi e il sanscrito, si abitua a «vivere e pensare esattamente alla maniera indù», prende lezioni accoccolato ai piedi del maestro, per salutare il quale ci si prostra, a una certa distanza, sul ventre. Oltre alle filosofie, allo yoga, al tantrismo, studia in particolare la musica classica indiana, fino a diventare Direttore aggiunto del Collegio di musica dell’Università di Benares. Dopo il ritorno in Europa, con la missione di mostrare l’induismo nella sua autentica realtà, fonda a Berlino poi a Venezia (1963 e 1970) l’Istituto Internazionale di Studi Musicali Comparati.

Proprio per l’integrazione di esperienze opposte – quella dell’intellettuale europeo e quella interna all’induismo profondamente assorbita in India – i contributi di Alain Daniélou, sovente pionieristici, sembrano talora non poter distinguere le diverse prospettive, quella dello studioso e quella del praticante convinto. Ma è solo l’ombra di un alto pregio, poiché riflettono un processo personale di crescita e di conoscenza genuino, tenace, sempre sorretto dalla capacità di mettersi in discussione, di sperimentare concretamente, di pagare personalmente. Fra i temi numerosi cui Daniélou si è dedicato (mitologia, musica, storia e sociologia dell’India), i volumi da poco pubblicati offrono considerazioni penetranti soprattutto sull’arte e sulle raffigurazioni erotiche templari. Giudicate scandalose appena conosciute in Occidente, come pure da hindu di prima grandezza educati all’occidentale – Gandhi e Nehru fra i primi – queste raffigurazioni evocano per Daniélou il kama , “piacere”, forza primordiale da cui si sprigiona l’intera manifestazione e alla quale ciascun essere irresistibilmente anela ritornare. Simboleggiata e favorita, secondo alcune correnti, dall’atto d’amore, la sua realtà piena è la «condizione ultima nella quale l’individuo e l’Universale cessano di essere separati», condizione dove «colui che abbraccia il Sé non conosce né il dentro né il fuori». Di questa realtà le coppie di amanti di pietra silenziosamente immerse nell’abbraccio sono l’immagine.

Alain Daniélou, «Il giro del mondo nel 1936», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg.156, €30,00;

«La scoperta dei templi. Arte ed eros dell’India tradizionale», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 48, € 6,00.

Da ricordare il volume autobiografico:

Alain Daniélou, «La Via del Labirinto. Ricordi d’Oriente e d’Occidente»

Carta – n. 15 anno 2005
A spasso nel novecento con Daniélou
di Umberto Zona

“Sono un frondista per natura, tendo sempre a oppormi all’ideologia dominante […], ma non sono un profeta e d’altra parte la mia barba si rifiuta di crescere”.

È quanto Alain Daniélou dice di sé nella sua autobiografia, “La via del Labirinto”, fin qui inedita in Italia e ora pubblicata, in una edizione accurata, dalla neonata CasadeiLibri. Leggendola, vi ritroverete alle prese con un avvincente e coltissimo on the road lungo le rotte del Novecento. Daniélou fu ballerino nella Parigi degli anni ‘trenta, frequentatore delle avanguardie artistiche e letterarie europee e viaggiatore instancabile. Il suo nomadismo riflette il suo straordinario eclettismo. Fu musicista, pittore, scrittore e studioso delle arti e delle filosofie orientali. In particolare dell’induismo, cui si convertirà nel corso del suo soggiorno in India, trascorso prima alla scuola di Tagore e poi come ricercatore all’università di Benares. Eccellente etnomusicologo, si deve a lui una monumentale raccolta, realizzata per l’Unesco, di musiche popolari della tradizione orientale, africana ed extraeuropea. Ma chi si aspetta le memorie di un accademico rimarrà spiazzato dal fiume di avventure e annotazioni personali, politiche e di costume, riportate con un irresistibile sense of humor. Tra una galleria di ritratti politically incorrect di molti tra i protagonisti del secolo scorso, lo inseguirete tra salotti hollywoodiani e postriboli asiatici, storditi da quella gioia di vivere che in Daniélou, tiene insieme il sacro e il profano e pare annunciare la venuta di quel Dionisio vittorioso pronto a “trasformare il mondo in una vacanza”.

 

Marie Claire
I labirinti di un ribelle
di Micaela Zucconi Fonseca