Lo ‘specchio’ e il ‘gesto’ di Coomaraswamy
Corriere Nazionale Cultura 31 Gennaio 2017
di Pierfranco Bruni
Lo specchio e il gesto di Ananda Kentish Coomaraswamy a 70 anni dalla morte e a 140 dalla nascita. Non sempre è possibile specchiarsi in uno specchio. Non sempre è possibile afferrare un gesto.
Ananda Kentish Coomaraswamy nato a Colombo il 22 agosto del 1877 è morto nel Needham il 9 settembre del 1947. Il mistero indiano nell’arte è stato il suo viaggiare tra le griglie simboliche di un Oriente nel quale il suo esistere si è consolidato e un Occidente la cui misura degli spazi è una trasparenza delle occasioni delle eredità greche e dei riti. Una trasparenza anche dal punto di vista etno – antropologico che pone in essere questioni che esulano da aspetti estetici per penetrare in una filosofia dell’essere.
La mano che non vedi ha lo sguardo che possiedi. Sul filo di questa lama cammino senza timore. Mai chiedendomi cosa è la vita e mai sostando nello spazio delle domande già poste e mai risolte. Senza mai far rumore, con l’insegnamento di Coomaraswamy, perché so che il silenzio è sempre l’esplosione del necessario e il rumore e il tentativo dell’inutile. La magia è nella filosofia di fare dell’arte il necessario per diventare viaggiatori di simboli.
L’arte come essere e non solo come estetica. L’Oriente come identità dell’essere dentro la visione delle arti. È in questo incastro magico – sacrale che si giocano gli orizzonti di una alchimia, in cui l’Oriente ha non virtuosismi ma Sapientia del pazientare nell’osservazione della Parola che è Incipit di conoscenza osservando sempre gli occhi del serpente, simbolo primordiale, e lo sguardo dell’aquila, simbolo “cerchiatore”, (chiude sempre il cerchio).
Dal suo “indagare” tra il mito e il Buddismo, il cammino conduce alla trasfigurazione dell’arte nel vissuto della natura (penso a La trasfigurazione della natura nell’arte, Rusconi, 1976 e prima a Sapienza orientale e cultura occidentale, Rusconi, 1975). Un penetrare nel sottosuolo delle caverne dell’anima che non nascondono, ma rivelano.
La rivelazione è un grande brivido che tocca le corde di un magico avvertire. Si avverte perché è già tutto dentro di noi come cesellatura lunare di un mito oltre l’archetipo della conoscenza. Oltre tale dimensione c’è la visione che attraversa comunque il labirinto e grazie al brivido si taglia l’immaginario (penso a Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, 1987).
La figura di Budda diventa fondamentale sia come figura sacrale, il personaggio e il divino nel camminamento verso l’Illuminazione, sia come tradizione di un percorso che lega il mistero dell’arte indiana alla dottrina buddista vera e propria in termini “filosofici” (penso a La vita e l’opera di Sakyamuny Buddha, Il cerchio, 1992, a Vita di Buddha, Milano, SE,1993 e a Buddha e la dottrina del buddhismo, Luni, 1994).
La questione centrale resta il colloquiare tra il tempo e l’eternità. Ovvero consiste nel vivere in quel “Ho trascorso un istante che è durato un’eternità…”. Un’indicazione fondante che intreccia il rito della tradizione come anima penetrante con il sacrificio che si legge nel rito stesso sino a definire il cammino come il lungo cammino verso l’infinito che si veste di eterno. Sono i simboli che si decifrano e si dichiarano.
Così come nella metafora del “grande brivido” che è espressione dell’essenza di tutto: “In ultima analisi, il rito, come ad esempio quello dell’antico Sacrificio Vedico, è un procedimento interiore, di cui le forme esterne sono soltanto un supporto, indispensabile per coloro che stanno ancora percorrendo il cammino e ancora non ne sono giunti al termine, ma superfluo per coloro che ne hanno già raggiunto la fine, e che, per quanto possano ancora essere nel mondo, non sono più del mondo. Nel frattempo, non esiste pericolo o ostacolo maggiore dell’iconoclastia prematura di coloro che ancora confondono la propria esistenza con il proprio essere, e che ancora non hanno “conosciuto il Sé”; questi sono la stragrande maggioranza, e per loro il tempio e tutte le sue raffigurazioni servono da indicazioni lungo il cammino” (Ananda K. Coomaraswamy, in Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, cit.).
Infatti è necessario non dimenticare che dove c’è il mistero non si può chiedere alla ragione di avere un senso. Le culture non diventano processi culturali ma identità originaria attraverso le quali gli uomini e i popoli si fanno civiltà. Le civiltà non si reggono con la storia, ma con le impalcature degli archetipi, dei miti, dei simboli che diventano metafisica dell’esistere e ontologia della metafisica del tempo. In un tale viaggio il mistero è il tutto nell’alchimia di una magia che recupera l’esistenza stessa come spiritualità e come eredità di un testamento onirico.
Un testamento in cui la tradizione ha le radici di una antropologia archetipale fatta di simboli e segni, tracce e scavi di memoria in un tempo di spazi e di eterne rappresentazioni magiche. Uno spazio prospettico che indirizza e nel quale si specchiano i codici dell’anima. Tra i quali “L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere” (James Hillman). Ananda Kentish Coomaraswamy in una filosofia dell’anima ha posto il centro del suo camminamento come se fosse “lo specchio del gesto” (penso a Lo specchio del gesto, CasadeiLibri, 2011) in un distillato in cui lo sguardo ha gli occhi dell’anima e vivono, gli occhi, dentro il labirinto spirituale, con l’infinita fine del tempo e dell’eterno, tra l’immortalità e l’orizzonte. Si vive di specchi di gesti di tramandi negli occhi imperturbabili di un messaggio di tempo e di un pensiero di eternità che è il contemplante Divino che vive la Tradizione.
Ma il tempo può sempre cercare di imitare l’eternità.