Recensioni Il Giro del Mondo nel 1936

Il Mattino del 2/11/2007

Quando Daniélou ritrovò la sua anima nell’India di Tagore
di Francesca Bellino

Alain Daniélou considerava l’India la sua vera patria. Nato in Francia, a Losanna, il musicologo, ricercatore, scrittore, pittore, viaggiatore, uno dei più eminenti orientalisti contemporanei, dopo il suo approdo sulle rive del Gange non diceva più di essere un francese, ma «un indiano convertito all’induismo». Daniélou scopre l’India all’inizio degli anni ‘30, se ne innamora e sceglie di viverci. Naturalmente anche il giro del mondo che intraprende nel 1936 insieme all’amico fotografo Raymond Burnier è ricco di tappe indiane. I due, che decidono di percorrere il Paese in roulotte, il loro sguardo è curioso e affamato di conoscenza. Non si annoiano mai e quell’esperenza è raccontata nel libro Il giro del mondo nel 1936.
Daniélou per più di vent’anni vive a contatto con gli indiani, «pronto a fare tabula rasa della sua cultura». La prima persona che incontra è il poeta Rabindranath Tagore, la sua città diventa Benares dove vive dividendo il suo tempo tra l’attività di ricercatore all’Università, lo studio del Sancrito e dell’hindi – per lui lingue fondamentali per capire la cultura indiana – lo yoga e la scoperta delle canzoni tradizionali. Subito si converte all’induismo, un apparente paradosso per il figlio di una madre cattolica, un padre anticlericale e un fratello futuro cardinale. Il suo maestro gli da il nome di Shiva Sharami (il protetto di Shiva). Non si sente un guru, né un profeta, ma quando, nel 1958, torna in Europa, per lui «un Paese malato», il suo intento è far conoscere l’India tradizionale all’Occidente e far capire che l’induismo può portare un nuovo Rinascimento. Fino alla morte, 10 anni fa, solo l’Italia riuscirà a farlo sentire a casa.

recensione del Giro del mondo

 

Autocar di ottobre 2008

Indù vai?

Appassionato credente e studioso dell’induismo, l’orientalista e musicologo francese Alai Daniélou è stato anche un pioniere dei raid automobilistici. Come racconta in un libro di prossima pubblicazione
in occasione del centenario della sua nascita, vorrei dedicare questa pagina ad Alain Daniélou. Nato in Francia il 4 ottobre 1907 da madre fervente cattolica (aveva fondato anche un ordine religioso) e padre anticlericale bretone più volte ministro sotto governi socialisti, Alain trascorre l’infanzia in campagna con precettori, un’immane biblioteca e un pianoforte, scoprendo sin da allora la musica e la pittura.
Negli Stati Uniti per gli studi universitari vendeva i suoi quadri e suonava il piano durante la proiezione dei film muti. Ritornato in Francia studiò canto con Panzera, danza classica con Legat, il maestro del grande Nijinski, e infine composizione con Max d’Olonne. Diede dei recital e fece delle mostre.
Molto sportivo, Daniélou è stato campione di canoa e un abile pilota di auto da corsa. Nel 1932 compì un viaggio di esplorazione nel Pamir afgano e nel 1934 partecipò al raid automobilistico Parigi-Calcutta. Fu amico di Cocteau, Diaguilev, Stravinskij, Nabokov e dei principali intellettuali dell’epoca.
Dopo innumerevoli viaggi in Africa e in Oriente si stabilì in India, dove soggiornò dapprima presso il poeta Tagore che gli affidò l’incarico di curare i suoi rapporti con gli amici Paul Valéry, André Gide e Benedetto Croce, e lo nominò direttore della scuola di musica a Shantinketan.
Trasferitosi a Benares, scoprì la cultura tradizionale indiana e per vent’anni si dedicò allo studio della musica classica indiana presso i più grandi maestri. Collaborò anche alla fondazione di un partito politico, lo Janaz Sang, che propugnava la difesa della società indù contro le moderne idee occidentali in forte opposizione al Mahatma Gandhi. Dopo l’indipendenza dell’India fece ritorno in Europa e nel 1963 fondò a Berlino, e nel 1970 a Venezia, l’Istituto interculturale di Studi Musicali Comparati promuovendo la scoperta della musica d’arte asiatica nell’Occidente. Si è spento in Svizzera nel 1994 e, da buon indù, è stato cremato.
Nella sua autobiografia La via del Labirinto (ed Casadeilibri 2004) racconta con divertita ironia il disorientamento che provocava a conoscenti e visitatori della sua casa di Parigi quando interrompeva le sue riflessioni sull’induismo e sulla musica indiana, dicendo che aveva voglia di rilassarsi e scendeva in garage per guidare la sua sportiva preferita.

Di Alain Daniélou vogliamo suggerire Il Giro del Mondo nel 1936 in uscita in questi giorni per la Casadeilibri. Chiediamo a Jacques Cloarec, presidente della Fondazione Alain Daniélou, quale fosse il suo rapporto con le automobili: “All’inizio degli anni ’30 Alain Daniélou incontra lo svizzero Raymond Burnier, un giovane facoltoso col quale intraprende grandi spedizioni, il più delle volte in macchina. In particolare Daniélou ricorda, nell’autobiografia La Via del Labirinto , un avventuroso viaggio dall’Europa fino all’India. Sono entrambi giovani appassionati e per tutta la loro vita guideranno a forte velocità automobili molto potenti.
La prima è la Hispano-Suiza della quale Daniélou disegna la carrozzeria e che finirà abbandonata sui monti Carpazi, dove si era rifiutata di continuare il viaggio. Seguiranno delle Citroën a trazione anteriore, le auto dei gangster dell’epoca, poi una Matford, che vendettero all’attore Jean Marais quando andarono a vivere in India.
Qui fecero arrivare, per la prima volta, una roulotte da Los Angeles; sarà una spider Forda a trainarla durante le spedizioni nella giungla per fotografare i templi abbandonati.
Quando li incontrai nel 1962 Raymond Burnier era già definitivamente conquistato dalla Jaguar: ne acquisterà vari modelli fino alla sua prematura morte nel 1968. Daniélou ha, in questo periodo, una rara Austin-Healey cabrio 4 posti. Poi arriverà una grossa Jaguar e un’immensa Mercedes cabriolet, delle quali non fu mai troppo convinto.
Ma negli anni ’70 scoprimmo entrambi le Porche, diventandone degli appassionati che non avevano occhi per nessun’altra. Comprai inizialmente una 912 poi abbiamo posseduto le prime 911 Targa, alle quali siamo rimasti fedeli. Erano le macchine ideali per inerpicarsi sul S. Bernardo quando viaggiavamo da Roma a Parigi e sul Brennero quando andavamo da Venezia a Berlino. Epoca benedetta! Poche limitazioni alla velocità e traffico assai meno intenso. Daniélou aveva una guida assai nervosa e veloce.
Mi ricordo viaggi da Roma a Venezia in 4 ore, con punte di 230 km/h. La maggior parte delle persone che viaggiarono con lui ricordano quell’esperienza come una delle più paurose della loro vita.
Daniélou non ebbe mai incidenti gravi; ma durante gli anni ’80, quando i limiti di velocità si fecero più frequenti, smise di guidare, poiché si annoiava. La passione per le auto è un aspetto particolare della sua personalità, che sorprende i lettori dei suoi numerosi libri tradotti in italiano, poiché in apparente contrasto con la sua immagine di filosofo, saggio e sapiente”.

Recensione Il tamburo di Shiva

Dal mensile Modus Vivendi di gennaio 2008 4/05/2006

“La musica indiana, tra storia e leggenda di LB”

Secondo i Purana, antichi libri indù di mitologia e storia, fu il dio Shiva ad insegnare la musica e la danza agli esseri umani più di seimila anni prima della nostra era. Così Alain Daniélou, orientalista e musicologo di prima grandezza venuto a mancare nel 1994, introduceva i lettori occidentali alla lettura de Il tamburo di Shiva, il primo trattato sulla musica tradizionale indiana recentemente pubblicato dalla Casadei libri in occasione del centesimo anniversario della nascita dell’autore.
Tra storia e leggenda, teoria e tecniche musicali, Daniélou ci porta alla scoperta della cultura di un paese in cui il notevole spirito di tolleranza e adattamento ha permesso di spingere lo sviluppo delle arti fino ad una raffinatezza estrema, la cui perfezione rende difficile ogni ulteriore evoluzione.
L’autore ci racconta in modo semplice, sintetico e completo i ritmi, gli strumenti, i musicisti di un paese che, sulla musica, basa gran parte della propria tradizione.

Il volume è citato anche qui

Recensione Cavigliera d’Oro

Da Il Sole 24 Ore del 29/1/2012

La Cavigliera lega la sposa
di Giuliano Boccali
Uno straordinario poema della letteratura tamil intreccia leggenda e credenze e parla di fedeltà coniugale
Uno straordinario poema della letteratura tamil intreccia leggende e credenze e parla di fedeltà coniugale e divinità da conquistare
Testo incantato e tragico, d’amore, fedeltà invincibile e irrefrenabile vendetta, La cavigliera d’oro è uno dei capolavori assoluti della letteratura tamil; composto in questa lingua di antico e nobile lignaggio del gruppo dravidico, ancora oggi lingua materna nel l’omonimo stato dell’India, il Tamilnadu, il poema risale molto probabilmente al V secolo d.C., questa almeno la convinzione ora scientificamente più attendibile; la tradizione lo attribuisce al principe Ilango Adigal della dinastia dei Chera regnante sul Malabar, all’incirca il Kerala attuale.
La vicenda è innestata profondamente nella tradizione sia letteraria sia religiosa del paese; protagonista è Kannaki, deliziosa fanciulla di una nobile famiglia di mercanti, sposata al suo pari Kovalan con una cerimonia dal fasto regale. Come regale,e appassionata negli slanci d’amore, è la vita della coppia finché il marito non si invaghisce della danzatrice Madahavi, stupenda e sofisticata, per la quale abbandona sposa e onore familiare. Ma Kannaki, esempio di autentica sposa hindu e di potenza femminile, come vedremo, riaccoglie Kovalan caduto in miseria e intraprende con lui una sorta di pellegrinaggio nel Sud dell’India, confidando in Rinnovate fortune. La morte è invece in attesa e falcia lo sposo. Condannato per il furto, non commesso, di una cavigliera della regina. A questo punto l’impensabile metamorfosi di Kannaki; “gravida di furia selvaggia e sfolgorante di rabbia”, dimostra inequivocabilmente al re l’iniquità della sentenza: la cavigliera era sua, colma di pietre preziose, non adorna di perle com’è invece quella della regina. Il sovrano muore, sopraffatto dall’eviidenza del male commesso e da sinistri presagi, e così la regina. Ma questo non basta alla sposa indomabile: con gesto devastante, di altissima portata rituale e simbolica, profondamente innervato nei culti eroici e divini del suo paese, Kannaki, si sradica il seno sinistro. Testimoniata la propria veridicità e assoluta fedeltà, tre volte al giorno gira intorno alla capitale come folle lanciandole contro la carne estirpata. L’atto, pure rituale, ha il potere di evocare Agni, dio del fuoco, che compie intera la terribile purificazione già sancita dai celesti: Maturai brucia con i suoi quattro templi, gli dèi la abbandonano, soli si salvano gli esseri santi e giusti, come i brahmani, le donne fedeli, le sacre vacche, o inermi, come i vecchi e i bambini. La potenza di una sposa incrollabile è smisurata nella visione hindu e questa, se è la più ampia e suggestiva, non è certo ‘unica leggenda a dichiararlo: tramutata in Pattini, la dea della fedeltà coniugale, Kannaki si riunirà in cielo al marito. Lo straordinario poema, dove magistralmente si intrecciano i caratteri di personaggi numerosi, soprattutto femminili, e le descrizioni molteplici della grande letteratura tamil – la vita delle corti e delle città, le opere quotidiane, la natura e le stagioni – è proposto ora da Casadei Editore, reso in italiano da Pietro Faiella dalla pioneristica versione inglese di Alain Daniélou. Ma già nel 2008 Ariele avava pubblicato una versione italiana curatissima anche nella scrittura di una grande specialista come Emanuela Panattoni. Le due iniziative a poca distanza, e da parte di due editori curiosi e coraggiosi, non possono che far piacere, almeno a chi ama la letteratura dell’India e, anche in questo ambito, la sfida all’incontro con l’inedito e il diverso.

Recensione Il Porto dei Santi

Il Gazzettino del 2/11/2008

La Venezia che voleva farsi santa
di Anna Renda

Per gli appassionati di storia veneziana, sono appena usciti per CasadeiLibri, due librini sugli influssi che ebbe fin dalle origini l’amministrazione (e la presenza) bizantina in laguna e sulla correlata storia delle numerose reliquie dei santi orientali conservate a Venezia.
I due volumetti sono rispettivamente la seconda edizione della “Guida alla Venezia bizantina. Santi reliquie e icone” ( 8.50) e “Venezia. Il porto dei santi” ( 11), entrambi frutto di una ricerca condotta dallo studioso veneziano Renato D’Antiga, già autore di numerosi saggi sulla storia e sulla spiritualità dell’Oriente cristiano e di un terzo titolo “Venezia e l’Islam. Santi e infedeli”, di prossima uscita, che insieme agli altri due andrà a completare la trilogia sull’argomento pubblicata dalla casa editrice padovana nella collana Porte d’Oriente.
Soprattutto nel primo dei due libri si ripercorre rapidamente la storia della città lagunare, individuando quei momenti e quegli aspetti che documentano gli influssi bizantini, in particolare il culto di tantissimi santi orientali, che si affiancò a quello dei santi locali perdurando spesso anche dopo la caduta della Serenissima e di cui rimane traccia nella toponomastica cittadina e nel nome delle chiese.
Anche il culto veneziano delle reliquie, spiega D’Antiga, deriva dalla teologia delle reliquie e dalla dottrina della deificazione elaborate dalla Chiesa soprattutto in Oriente.
E in base alle quali è possibile comprendere la smania dei veneziani di impossessarsi dei corpi dei santi per rendere la città, sul modello di Costantinopoli, un centro di riferimento religioso per la cristianità del tempo. Ricordando l’antica usanza veneziana di venerare le icone, soprattutto quelle della Madonna della Salute e della Nicopeia, D’Antiga presenta anche altri elementi, in particolare liturgici, della religiosità marciana, che non hanno riscontro in occidente, e che devono essere ricollegati all’influsso bizantino.

Recensione di Venezia e l’Islam

Da “Il Sole 24Ore” del 20/3/2011

Scorrerie per trovare reliquie di santi
di Camilla Baresani

È il 2 luglio 1571. Nella basilica di San Marco, a Venezia, una cerimonia solenne proclama l’alleanza della Lega Santa. Da un lato, Papa Pio V, il re di Spagna Filippo II e la Serenissima; dall’altro, Solimano il Magnifico, che ha conquistato Cipro, baluardo della cristianità latina e fonte di ricchezza e traffici per Venezia. Alla cerimonia segue una parata politico-religiosa di sfarzo inaudito. Argenterie e ori esposti su tribune mobili. Una di queste, come riporta un documento del tempo, raffigurava «una barchetta guidata da un moro nudo con le ale e le corna che pareva proprio un diavolo, credo che rappresentava Caronte, e nella sua barca vi era dentro un vestito da turco». E poi il Doge, ambasciatori e «gentil’huomini Veneziani vestiti tutti di cremisino, non vi dico poi il rumore e le allegrezze che si fece di campane… tale che non si vide mai il più bello apparato da che Venezia è Venezia». Quasi dispiace non esserci stati quel giorno, col moro nudo e i veneziani drappeggiati di velluti, rasi e damasco. Ma è uno dei pochi momenti festosi raccontati in Venezia e l’Islam dal bizantinista Renato D’Antiga, studioso del culto delle reliquie di santi orientali. Dall’840, data di una disastrosa sconfitta della flotta veneziana contro i turchi a Taranto, fino al 1716, con la vittoria trionfale di Corfù, D’Antiga ci racconta il conflitto di civiltà e traffici che caratterizzò il fitto rapporto tra Venezia e l’Islam. Il resoconto, interessantissimo e ricco di dettagli iconografici (il libro è corredato di molte illustrazioni), mostra una conflittualità continua e spietata. Ecco per esempio cosa successe al governatore di Cipro Marcantonio Bragadin, che resisteva nella fortezza di Famagosta dopo lo sbarco degli ottomani: il comandante turco Mustafà lo catturò e lo fece scuoiare vivo, per poi impagliarlo e spedirlo a Costantinopoli come trofeo da conservare nell’arsenale. Ma nel 1580 la famiglia Bragadin riuscì a far trafugare il macabro reperto, facendolo poi collocare nella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, sotto un suo busto a grandezza naturale. Non si contano le scorrerie dei veneziani per trafugare reliquie di santi. Del resto, la storia stessa di Venezia inizia con un avventuroso furto di spoglie sacre. Le popolazioni venetiche, rifugiate in laguna per sfuggire ai barbari e sottoposte alla blanda tutela dell’imperatore di Costantinopoli, cominciarono a temere di finire sotto l’occhiuto e turbolento dominio carolingio. Per rafforzare il nascente ducato, c’era bisogno di un nuovo santo patrono, che unisse il presente con i primordi della predicazione evangelica nella Venetia. Si decise dunque che l’evangelista Marco, il cui corpo era custodito nella chiesa di Bucoli ad Alessandria d’Egitto, diventasse il talismano religioso – e soprattutto politico – di cui la città e il Doge avevano bisogno. Ma l’Egitto era caduto in mano agli arabi, e fu solo grazie agli stratagemmi di due mercanti veneziani che si riuscì nella “translatio” del corpo del patrono di Alessandria. In seguito alla IV crociata, a partire dal 1204, cominciò ad affluire a Venezia una gran quantità di reliquie di santi orientali. Tra furti, scambi e regali, oggi le chiese veneziane custodiscono più di un centinaio di frammenti sacri. Con la guida di Venezia e l’Islam, potete costruirvi un singolare itinerario veneziano, sulla traccia di questi cimeli corporali per il cui possesso persero la vita in tanti.

Da “Studia Patavina” dell1//2012
 di Giorgio Fedalto

E’ un piccolo libro che si legge volentieri presentando aspetti diversi della storia di Venezia dalle sue origini, in connessione con scontri e incontri con l’islam. Si direbbe una storia attuale se non fossero mutate le componenti storiche di fondo. La globalizzazione del pianeta, i concetti di libertà, fraternità, uguaglianza, i drammi che deriverebbero da guerre nucleari spingono, finché ciò sia possibile, a cercare costantemente operazioni di pace. Allora era tutto diverso. Venezia si difendeva da Genova in ragione del loro commercio a Bisanzio e nell’impero, si opponeva ai saraceni o trovava degli accordi con loro fino ai limiti delle proprie possibilità e delle proprie difese. Per di più, allora, credendo in un Dio protettore e in una Theotokos, Madre di vittoria, i veneziani vi ricorrevano abitualmente, in guerra e in pace. Preghiere, processioni, voti erano costantemente all’ordine del giorno e cos’ quanto ricordava santi antichi e piœ recenti. Ci˜ spiega pure la grande devozione per le reliquie, che soprattutto un impero come quello bizantino fondamentalmente cristiano cercava e conservava: devozione incrementata a cominciare dagli esponenti della casa imperiale, che spesso regalava reliquie per benefici ricevuti da Venezia per l’aiuto, anche militare, prestato loro in contingenze difficili. Il sacro entrava cos’ nella vita quotidiana ed era la reale garanzia di fronte al pericolo incombente, solitamente di provenienza saracena.

Fa piacere leggere queste pagine anche perché l’A. non manca di aggiungere alla bibliografia su storia politica e civile pure quella religiosa. Appunto la religione cristiana era l’anima della Repubblica veneziana, per cui non si potrebbe scriverne la storia ignorandola.

 

Recensioni Shodo Lo stile libero

Alias supplemento de Il Manifesto
Shodo di Marta Ragozzino

 

alias shodo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Da YB Cinema, musica, arte e cultura

Fra i molti tesori che ci riserva la millenaria cultura del Sol Levante, una gemma preziosa risplende e rifrange la sua luce su tutte le altre arti: la calligrafia tradizionale, tuttora viva e praticata in Estremo Oriente ma da noi quasi sconosciuta e quasi del tutto incompresa. Finalmente anche in Italia è uscito un libro, in una squisita veste grafica, che ci invita adassaporare ed ad apprezzare lo Shodo , l’antica arte della calligrafia giapponese [Norio Nagayama, Shodo Lo stile libero. Calligrafia, tradizione e arte contemporanea, Casadeilibri, Padova 2005, pp. 128, € 25,00].
Splendidamente illustrato, il libro è diviso in quattro parti: un primo saggio ci introduce al significato simbolico dello Shodo , indicando il misterioso legame fra pennello, inchiostro, carta, sigillo, la cui armonia rimanda a un contenuto sapienziale che risale a tempi remoti, e che viene restituito alla possibilità delle nostra comprensione attraverso l’arcana bellezza della calligrafia; segue un’intervista al maestro Nagayama che parla della sua esperienza personale, del suo rapporto con questa antica arte, ma anche di come ‘guardare’ una calligrafia, e di cosa vi si può vedere; la terza parte è una ‘lezione’, in cui sono forniti interessanti elementi di comprensione di una calligrafia, attraverso immagini che mostrano significativi dettagli e visioni d’insieme; infine un corposo contributo di Bruno Riva indaga sui rapporti fra l’arte occidentale del novecento e lo Shodo , mostrando il ‘debito’ che molta produzione artistica contemporanea ha nei confronti della tradizione orientale, ma anche le reciproche influenze che hanno attraversato le esperienze concrete degli artisti d’oriente e d’occidente.
I diversi, molteplici aspetti della calligrafia tradizionale sono così presentati ad un lettore affascinato che viene guidato in un viaggio che tocca terre incantate e lontane, ma chegiunge infine, prima o poi, nel luogo ove è possibile l’incontro con il ‘diverso’: il cuore stesso. Ed è il cuore, centro dell’emozione ma anche dell’intelligenza, che permette di ‘ammirare’ la calligrafia, così come è dal cuore che origina la pratica stessa dello Shodo.
La parola giapponese Shodo (in cinese sho dao), che comunemente è tradotta con “ arte della calligrafia ” è composta da due ideogrammi: sho, arte della scrittura, e do, via e anche ricerca e comprensione della vita. Shodo allora significa “ ricerca e comprensione della vita tramite la pratica della calligrafia ”. Per gli occidentali la parola “ calligrafia ” evoca la bella scrittura; in Estremo Oriente la calligrafiaè intimamente legata alla pittura, è un’arte e una pratica di vita. L’arte dello Sho comporta prima di tutto la padronanza del tratto, l’immediatezza del gesto, il ritmo, il controllo della forza impressa al pennello. Non si scrive con la mano e con il polso, ma con tutto il corpo, in uno stato di profonda calma e concentrazione. Un maestro calligrafo, pienamente padrone della tecnica e degli strumenti che utilizza, agisce in uno stato di totale libertà: perciò non solo l’opera compiuta affascina con la bellezza dell’armonia prodotta dall’equilibrio di pieni e di vuoti, di bianco e di nero, ma anche vedere un maestro mentre opera nello “ stile libero ” è esperienza di grande fascino. Il maestro osserva il foglio bianco e attende di essere pronto: improvvisamente impugna il pennello e con movimento rapido, preciso e sicuro traccia il carattere.
Il maestro Norio Nagayama è in Italia da circa 15 anni: VIII Dan della Japanese Calligrafy Federation , scuola che ha come Presidente l’Imperatore del Giappone e come Direttore il Calligrafo di corte che è stato maestro dell’Imperatrice, alcuni anni fa ha vinto un concorso e gli è stato conferito il titolo di ‘Maestro ingiudicabile’. La lunga permanenza in Europa e il proficuo rapporto con allievi e collezionisti occidentali gli permette di saper rispondere con chiarezza ai dubbi e ai problemi che si presentano all’occidentaleprofano, al quale lacalligrafia appare come un’insieme di segni astratti su un fondo bianco. E’ quindi l’occhio che deve essere educato, per poter apprezzare le innumerevoli tonalità di bianco e di nero, e vedere attraverso di esse la personalità stessa dell’artista che viene fuori, la sua energia.Ma dove risiede l’essenza della bellezza di una calligrafia? E’ una corrente sottile, che scorre fluidamente nei caratteri, e che li fa vibrare, donando loro la presenza della tridimensionalità. E’ questa corrente che lo sguardo educato alla bellezza riesce a cogliere: « Ci sono calligrafie che hanno accumulato l’energia dentro, che la nascondono; altre che la buttano fuori: si vede bene l’energia che si proietta fuori nello stile corsivo mentre nel Kaisho (stile stampatello) l’energia si vede dentro. In realtà stiamo sempre scrivendo in maniera personale, che sia corsivo o Kaisho , perché ognuno ha un’energia, però deve essere libera. Non dev’essere la rigidità che porta a nascondere, no, deve essere libero e nascosto. Come se fosse aquila, che dico, nasconde unghie, no?».

Recensioni Elogio del Muschio

Il Sole 24 Ore del 24 aprile 2014
di Gian Carlo Calza

Elogio dei muschi: titolo indovinatissimo. Fa subito venire alla mente quello del suggestivo Elogio della penombra di Junichiro Tanizaki – purtroppo reso in italiano con Libro d’ombra – ma tant’è. Come nel capolavoro del grande scrittore giapponese anche in questo si parla di realtà minime e profondissime. Tenute in nessun conto, se non addirittura spregiate, in Occidente, ma più che apprezzate in Asia e addirittura esaltate in Giappone. Vi si descrivono percorsi capaci di portare là dove la sapienza si ferma e di far riscoprire al cuore e ai sensi luoghi negletti della conoscenza.
In modo evidentemente ispirato a quel libro l’autrice, Véronique Brindeau, si muove col suo volume uscito per i tipi di CasadeiLibri studiosa e docente di musica giapponese a Parigi, sembra voler trasmettere nel libro una sensibilità, una ricerca di ritmo e ascoltazione necessarie per penetrare nel mondo stesso della musica. Con fare delicato e attento si addentra nell’universo dei muschi giapponesi e della loro cultura cogliendone la meraviglia, la ricchezza e la complessità. Sciorina davanti al lettore un universo di decine, centinaia di muschi laddove in Francia, suo paese natale, tre sole specie entrano nel lessico comune.
Attraverso pagine costellate di poesie e miti antichissimi, in cui il muschio è apprezzato e svolge un ruolo spesso centrale, nonché di illustrazioni avvincenti di parchi, giardini, boschi, templi e capanne preziose, questo elegante libretto apre la via a un tipo di conoscenza che è anche antidoto alla fretta, alla grossolanità e all’indifferenza verso le cose piccole, ma fondamentali e rigenerative dell’esistenza.
L’autrice accompagna la sua apologia dei muschi ad altri veicoli culturali che con essi s’intrecciano: bonsai, giardini, cerimonie del tè, templi quasi segreti.
Il Saihonji è un tempio di Kyoto che richiede una procedura particolare per l’ammissione. Oltre la prenotazione con vari giorni d’anticipo è necessario percorrere una strada a piedi per raggiungerlo e solo in gruppo una volta al giorno. È poi richiesto di trascrivere anche se non si conosca il giapponese quindi come si può un certo numero di caratteri di un sutra o discorso del Buddha. Quindi una serie di difficoltà per accedere a quello che è la principale attrazione del luogo sacro, vale a dire il suo celebrato giardino dei muschi.
Oggi nell’era della globalizzazione siamo costantemente sommersi da tsunami di saperi senza fine, e fine a se stessi, su tecniche, modi di pensare, forme estetiche di culture e società innumerevoli alcune anche che incombono più o meno minacciose sulle nostre realtà. E proprio questa massa di informazioni rischia di non creare nessun ponte di vera comunicazione perché il cuore non ha lo spazio, il tempo, di trafilarla con la decantazione, con l’esperienza.
E allora si capisce come queste difficoltà appositamente create abbiano lo scopo di creare tale spazio di attesa, silenzio e ascoltazione per meglio assorbire vivere, senza dover capire l’esperienza dell’incontro.
Ma funziona? Qualcuno si chiederà.
«Marco cominciò il suo lavoro come uno scolaro all’aperto e finì i duecento ideogrammi invaso o per meglio dire invasato di felicità. Felicità della vita, della perfezione di tutto, dal profumo che saliva dal tatami alla morbidezza del pennellino con cui egli tracciava felicemente gli ideogrammi di cui non capiva nulla. (…) anche qui la felicità di Marco era al suo massimo, senza alcuna punta di malinconia, ed egli si identificava sia con gli alberelli di acero percorsi da un venticello quieto e fresco, sia coi vari tappeti muschiosi e perfino con l’ombra e la luce che giocavano attraverso la polvere d’oro e gli aceri sul piccolo stagno dalle flottanti carpe. Qual genere di felicità era? Marco non lo sapeva, ma forse era proprio quella suggerita dalla filosofia Zen».
Ma quel Marco così poco giapponese e così profondamente italiano capace però di immergersi nel diverso da sé grazie alla lentezza del muschio e non solo, è Goffredo Parise che evoca questa e altre simili esperienze d’incontro, e anche scontro, col Giappone nel bellissimo L’eleganza è frigida.

 

ALIAS SUPPLEMENTO DE IL MANIFESTO 23 Dicembre 2013
Fenomenologie dei muschi
di  Andrea Di Salvo
Chinati verso un tempo delle origini, verso il suolo. Verso un basso che accompagna lo sguardo raso le cose, nell’universo d’ombra screziata che in un’onda ininterrotta sopra di esse ammanta un tappeto ovattato di smeraldo. Attratti verso l’infinitamente piccolo, il minuscolo, il modesto, l’apparentemente indistinto. Così, ben al di là delle svariate considerazioni di ordine botanico o paesaggistico ci proietta questa apologia dei muschi, dilatando il suo oggetto a viatico di un necessario cambio di prospettiva, in uno spaesamento che genera nuova attenzione. Così, almeno, per Véronique Brindeau nel suo Elogio dei muschi (traduzione di Lorenzo Casadei, Casadeilibri editore, pp. 110, € 18,00). Dove, per il tramite paradigmatico della pervasiva presenza dei muschi nei giardini e in tante forme espressive della cultura giapponese, l’autrice affettuosamente assume la fascinazione per l’alterità di quella civiltà e in specie per la costitutiva, particolare sensibilità del rapporto che essa intrattiene con la natura. Intima, rispettosa consuetudine qui emblematicamente testimoniata dalla mirabile varietà di nomi comuni riservati da questa lingua – come già alle nuvole, alle pietre da giardino o alle lanterne di pietra – ai muschi. In numero di trecento, stando alla guida tascabile di quelli del Giappone cui l’autrice attinge – e noi parafrasando – le delicate, immaginifiche descrizioni. Dal calligrafico “pennello di Yamato”, al profumato muschio cipresso, dal muschio “la brina che si posa”, al muschio “argento”, color cenere, fino al “muschio lanterna”, a quello detto “sigaro”, a quello “della memoria” … L’elogio percorre l’universo dei muschi evocandone l’impiego così nei giardini come nei paesaggi in miniatura o in quelli in vaso, procedendo per archetipi, oltre ogni declinazione cronologica. Dai sorridenti volti muscosi scolpiti nei giardini del tempio di Hoara, al Saiho-ji, il riscoperto Tempio del muschio di Kyoto, ricco dei suoi 120 tipi, con le composizioni di pietre coperte di muschi dei giardini d’influenza zen, fino al Ryoan-ji dove i muschi si fanno frange, margine, raccordo di vita nell’astrazione tra isole e mari di rocce. Risalendo su per i sentieri muschiati di rugiada che avviano al rito della cerimonia del tè. Fino alle moderne reinvenzioni nelle scacchiere di muschio cedro di Mirei Shigemori nel Tofuku-ji. Un lessico vivente di tessiture che dalle distese delle centinaia di muschi recenti del giardino di Hakone (1954) trascorre negli evanescenti confini di quelli di Komatsu a Koke no Sono, fino ai piccoli spazi dei giardini interni, quelli conclusi dei patii, invisibili dalla strada e senza orizzonti, o si condensa nei muschi-paesaggio, miniature giardino aperte al loro interno – dal vuoto di sabbia, al centro della composizione – verso un infinito senza limiti.
Se c’è una stagione speciale per ammirare i muschi – suggerisce l’autrice – è il mattino d’estate, rischiarato dopo un acquazzone improvviso; prima che la rugiada evapori o magari dopo che un gesto d’ospitalità, l’uchimizu,  ritualmente rianimi muschi e pietre del sentiero del giardino aspergendoli d’acqua, mentre dagli alberi un particolare tipo di luce tremolante, komorebi, cade filtrando figure e trasparenze del cammino, nel mormorio del vento.

 

La mia abitazione country&country Febbraio 2014

Si intitola così questo libro che ci accompagna con grazia verso gli antichi giardini giapponesie la poesia del Sol Levante. Ci si incammina verso uno di quegli spazi verdi che portano “alla casa del té, dove si reca chi vuole affrancarsi dal mondo”. Spazi che, naturalmente, sono tessuti di muschi, il cui regno incantato è tutto da scoprire e capire. Già, perché di muschi se ne parla poco, i giardinieri tendono ad eliminarli, i nomi botanici non sono tantissimi. In Giappone, invece, scrive Véronique Brindeau, “il suono dei loro nomi ne restituisce il colore e il movimento; i nomi disegnano la linea elegante di un cedro, il vapore delle nuvole, la cascata di un salice…” Si ha a che fare con pennelli da calligrafo, serpenti, nuvole di piccoli ombrelli… Insomma, vedere un muschio, dopo la lettura di questo volume, non sarà più come prima! “Immerso nel pensiero/dei ciliegi in fiore/sopra il muschio/stabilisco il mio giaciglio/e sonnecchio a primavera”.

Véronique BrindeauElogio del muschio

 

 

Recensioni Bambole

Dal sito “La Bacchetta magica ” – 19 novembre 2012

Poco tempo fa è arrivato in redazione un piccolo libricino. Devo dire che è cosa rara e la curiosità ci ha spinto a sfogliarlo con calma e attenzione, come merita. Si tratta delle creazioni un po’ singolari di Laura Biondi accompagnate dalle riflessioni “filosofiche” della sorella Cristina.

Bisogna dire che è stato interessante, un altro passo verso l’arricchimento personale e non solo. Ecco come le Cristina e Laura si presentano:

“Siamo due sorelle che da tempo hanno ritrovato il piacere di giocare insieme. Per tanti motivi è stato un piacere ritrovato: l’adolescenza prima e poi la giovinezza ci avevano portato ad allontanarci, ognuna assorbita dai propri interessi e dalle proprie ambizioni. Sin all’infanzia avevamo coltivato il piacere per i piccoli lavori manuali, per quella creatività che non ha bisogno di grandi spazi e di molto tempo per dispiegarsi, sempre un po’ sacrificata alle cose più importanti.
Poi, passati i cinquant’anni, i nostri passatempi hanno trovato uno spazio nuovo, finalmente conquistato come un pieno diritto, per certi aspetti hanno colmato dei vuoti senza tristezza, senza noia, rinnovando le emozioni del gioco libero da preoccupazioni, ingenuamente creativo.
Laura ha scoperto la passione per le bambole, per realizzarle con infinita pazienza, con un entusiasmo che si è rinnovato di fronte ad ogni nuova creazione. Oggi sono veramente tante e saranno sempre di più: particolari e colori nuovi rinnovano la freschezza della creazione e loro sorridono, quasi potessero condividere la gioia di vivere.
Cristina ama un po’ tutti i lavori manuali: uncinetto, ricamo, patchwork, centinaia di lavori testimoniano della sua costanza. Ma più di tutto ama scriverne e con Laura è nato il progetto di un libro per affermare tutti i nessi, tutti i legami delle bambole con il complesso mondo femminile, da sempre immerso in quella penombra riservata alle cose insignificanti. Forse a volte ingenui, i lavori femminili non sono mai banali, come non deve essere banale quella quotidianità che valorizza gli oggetti graziosi realizzati per abbellire le nostre case.
Negli anni abbiamo raccolto scampoli di tessuto, vecchi bottoni, passamanerie, un’infinità di materiale che oggi permette a Laura di studiare disegni e colori, di scegliere e di accostare i disegni. La tavolozza offerta dalle stoffe, se se ne possiede una collezione, è molto interessante, ogni tela ha già una sua personalità, un suo disegno: tinte unite, fantasie, righe e quadretti possono poi venir accostati e le bambole richiedono accordi delicati, il verde pallido accanto al rosa, il malva vicino al giallino. Poi, dato che la pazienza non manca, si prendono in mano i ferri ed ecco nascere vestitini di lana, piccoli maglioni e calzetti che inevitabilmente ricordano tempi lontani, i lavori delle nostre nonne.
Tralasciamo qui di accennare all’importanza delle bambole nella vita delle bambine, ne parliamo nel libro, sono piccoli spunti autobiografici senza la pretesa di esaurire l’argomento. Ma cosa dire della passione per le bambole di una donna adulta? La nostra impressione è che più ci si allontana dai ruoli impegnativi di madre o di zia, più lo sguardo al mondo dell’infanzia si carica di nostalgia e di quella speciale adorazione che riconosciamo nelle vecchiette che si chinano sulle carrozzine per vezzeggiare bimbetti sconosciuti e bellissimi. Il visetto infantile di Giulia, la figlia di Laura, è ormai un ricordo lontano, affidato a tante fotografie che ci circondano, mentre lei è andata a studiare lontano. Ora la fantasia fa sbocciare i sorrisi di bambole dagli occhi di primula o violetta, i neonati sono minuscoli, imbozzolati nelle loro fasce, loro non cresceranno, non ci lasceranno mai, a meno che non vengano immersi nella vita che scorre, posti in un lettino ove prima o poi verranno scoperti come compagni di gioco. Stranamente anche la centesima bambola realizzata da Laura è stata accolta da Cristina come racchiudesse la sorpresa per una novità, come fosse incaricata di annunciare promesse ancora vaghe e misteriose.
Siamo pronte al ruolo di nonne, pronte a portare in dono al futuro che avanza centinaia di bambole pazientemente confezionate a mano e migliaia di fiabe, antichissime o appena inventate.”