Recensioni FLORIO

ALIAS DOMENICA (18 maggio 2025) 

John Florio, un elisabettiano d’Italia: saggio di Frances Yates

INGHILTERRA, XVI E XVII SECOLO «John Florio», da Casadeilibri

di Luca Scarlini 

Prima di dedicarsi ai saggi della maturità sui Rosacroce e a quelli molto noti su Giordano Bruno fra gli altri, Frances Yates aveva licenziato agli esordi della sua attività di studiosa eclettica una monografia su John Florio, che esce ora in una edizione curata da Giorgio Ghiberti per Casadeilibri (pp. 486, € 30,00), editore che nel 2014 ha proposto una biografia della stessa Yates, a firma di Marjorie R. Jones. I primi interessi della storica erano concentrati sulla cultura francese del Rinascimento e i suoi effetti in Gran Bretagna, da qui l’interesse per lo scrittore di origine italiana, che aveva tradotto magistralmente l’opera di Montaigne. Florio era figlio di valdesi, originari della Toscana (forse Siena, o Lucca),  fuggiti a Londra  dalla Valtellina per le persecuzioni religiose, dopo che per un editto della corte avevano dovuto abbandonare il paese, vagando tra Strasburgo e la Svizzera. Al tempo in cui Yates scriveva molte erano le biografie lacunose degli autori rinascimentali in Inghilterra: il primo interesse del libro è ricostruire, con grande precisione, l’ambiente dei transfughi religiosi, che avevano trovato ospitalità oltre la Manica. Il padre di John, Michelangelo, era predicatore nella chiesa degli italiani, che gli assicurava un reddito, ma, agitato da diverse tensioni, si scontrò con la comunità, per questioni teologiche,  nel momento in cui si affermava il radicalissimo pensiero di Bernardino Ochino, che divulgava la teoria della predestinazione e predicava la poligamia trovandone il fondamento nella Bibbia. Florio abbandonò quindi il mondo religioso e divenne docente di lingua italiana, materia che appassionava le élites britanniche, inclusa la regina Elisabetta, con cui forse ebbe relazioni didattiche. A venticinque anni, di ritorno a Londra, pubblicò nel 1578 il libro d’esordio, I primi frutti, che trae ispirazione dalle Hore di ricreatione di Lodovico Guicciardini e dal Libro aureo di Antonio De Guevara, in cui riscriveva Marco Aurelio.

Negli anni tra il 1583 il 1585, lavorando presso l’ambasciata francese, Florio conobbe Giordano Bruno (da lui definito «il mio vecchio compagno nolano»), con cui ebbe un intenso scambio intellettuale. Compare ne La cena delle ceneri, come latore dell’invito di Fulke Greville per un trattenimento-dibattito a cui partecipano anche un cavaliere e due teologi luterani di Oxford. A questo incontro determinante, l’autrice dedica il quinto capitolo del libro. Negli anni seguenti la ricerca intellettuale porta Florio ad altri due risultati importanti: nel 1591 escono i Secondi frutti, una collezione di parole e di esempi, con seimila proverbi italiani di cui si  ritroverà traccia nelle opere di Shakespeare, ciò da cui nasce la celebre teoria, più volte affermata e smentita, per cui il Bardo sarebbe da identificarsi con lo scrittore italiano. Nel 1598 comparve poi A World of Words, primo dizionario di italiano, che permise agli intellettuali inglesi di potere frequentare con più agio le pagine di Boccaccio e Dante. Opera giovanile di Yates, questa biografia è notevole nella ricerca dei reperti culturali di un’epoca contrastata, in cui le ideologie e le religioni si scontravano continuamente, esponendo gli intellettuali a possibili ascese (Florio fu protetto dal principe Henry e ebbe grandi successi sotto il potere della regina Anne) e a repentini disastri (lo scrittore perse tutto dopo la morte del suo protettore). Il libro è del 1934: l’autrice scriveva in un passaggio storico imbevuto di retorica imperiale, che gli scrittori del Bloomsbury Group avevano da poco passato al filo di spada dell’ironia più selvaggia. Basti l’esempio di Lytton Strachey nel crudele La regina Vittoria (1928), senza scordare gli affondi leggiadri del coevo Orlando di Virginia Woolf. Il lavoro di Yates proponeva documenti nuovi, frutto di lunghe ricerche, e così come nel celebre studio dedicato a Bruno, John Florio è anche la ricostruzione di un’epoca, in un testo che tiene insieme il disegno complessivo e i dettagli di un’esistenza complessa, guidata dalla ricerca intellettuale del confronto tra culture e paesi, fino all’ultima impresa: la collaborazione all’edizione completa del Decameron boccaccesco, la prima in lingua inglese, destinata, come la versione di Montaigne, a notevole fortuna.

John Florio

 Frances A. Yates

John Florio  La vita d’un italiano nell’Inghilterra di Shakespeare

John Florio è noto ancora oggi per la sua grande traduzione in inglese degli Essays di Montaigne. Per i suoi contemporanei, era una delle figure più prominenti dei circoli letterari e sociali dell’epoca. Attraverso la ricostruzione della vita e del carattere di Florio, il testo di Frances Yates del 1934 fa luce sulla controversa questione delle sue relazioni con Shakespeare.

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Frances A. Yates, Scelse di studiare “storiografia interdisciplinare” e per più di quarant’anni fu legata al Warburg Institute della University of London, rivestendo anche incarichi di docenza. Gran parte del suo lavoro si è concentrato su neoplatonismo, filosofia e occultismo nel Rinascimento. Le sue opere principali, come Giordano Bruno e la tradizione ermetica o l’Arte della memoria, si concentrano sul ruolo centrale svolto dalla magia, dalla tradizione ermetica e dalla cabala nella scienza e nella filosofia nel Rinascimento. Oltre che di Giordano Bruno e Raimondo Lullo, si è occupata anche di Giovanni Florio, William Shakespeare e di storia della tradizione mnemotecnica da Simonide a Gottfried Leibniz. Insignita nel 1972 con il rango di Officer dell’Ordine dell’Impero Britannico, nel 1977 fu elevata al rango di Dama (Dame).

Nel 2008 è uscita Frances Yates and the Hermetic Tradition, la prima biografia di Frances Yates, a cura di Marjorie G. Jones, tradotta in italiano da Andrea Damascelli per Casadei Libri nel 2014 con il titolo Frances Yates e la tradizione ermetica

Recensioni

Il simbolismo del tiro con l’arco e il simbolismo della spada

Ananda Kentish Coomaraswamy

Dopo aver introdotto il lettore al significato primordiale della spada, Ananda Coomaraswamy illustra il simbolismo del tiro con l’arco che si cela ormai dietro l’apparente dimensione sportiva. L’autore intraprende quindi un viaggio che parte dalle corporazioni in Turchia, alle quali si era iniziati solo se in possesso delle necessarie qualificazioni, passa per l’India, e approda in Giappone dove ogni gesto dell’arciere obbedisce a ragioni trascendenti.

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Recensioni de Il Sentiero

Quaderni Asiatici 149 – marzo 2025

Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone di Véronique Brindeau, Casadeilibri editore,

pagine 96 illustrato, prezzo euro 21

ISBN-13 – 979-12-80146-15-1

  Con uno stile evocativo e sensibile, Véronique Brindeau ci accompagna in un viaggio affascinante attraverso la cultura giapponese con Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone, edito da Casadeilibri nella collana Porte d’Oriente. Questo libro, tradotto con grande cura da Lorenzo Casadei, rappresenta un raffinato omaggio alla filosofia estetica e spirituale dei giardini giapponesi. Arricchito da un ricco apparato iconografico, il libro si apre come un varco su un universo di armonia e contemplazione, offrendo al lettore un’esperienza che coinvolge tanto la vista quanto l’anima. Attraverso quattro saggi intrecciati tra loro in un’armonia narrativa, l’autrice esplora temi come la cerimonia del tè, l’arte del bonsai, i giardini abbandonati e l’integrazione paesaggistica tra natura e architettura sacra. Ogni capitolo diventa una finestra su un universo simbolico, in cui la riflessione e la contemplazione si fondono in un equilibrio perfetto tra poesia e rigore analitico. Il libro si configura così come un percorso di scoperta, in cui ogni pagina invita il lettore a perdersi e ritrovarsi, trasformando le parole in un ponte tra passato e presente, tra ciò che è visibile e ciò che sfugge all’occhio. La scrittura, intrisa di simbolismi e riferimenti culturali, si svela gradualmente, rivelando le molteplici sfumature di una tradizione che affascina da secoli. L’autrice trasporta l’essenza di un mondo in cui gesti semplici, come bere tè, prendersi cura di un bonsai o osservare il mutare delle stagioni, assumono un valore quasi sacro, capace di trasformare l’ordinario in straordinario. In questo viaggio, il lettore è invitato a riconoscere la bellezza nei dettagli più minuti, in quelle piccole attenzioni che, sommate, danno vita a un quadro complesso e vibrante. La meditazione proposta va oltre la semplice contemplazione: diviene uno strumento di conoscenza di sé, un invito a rallentare il ritmo quotidiano per abbracciare la calma e la serenità offerte dalla natura. Così, tra metafore eleganti e immagini evocative, il libro si erge come un manifesto di una filosofia di vita in cui arte, natura e spirito si fondono in un’armonia senza tempo. Il primo saggio, che dà il titolo alla raccolta, è dedicato al roji, il “sentiero di rugiada” che conduce al padiglione del tè. Apparentemente essenziale nella sua composizione, questo percorso è in realtà un microcosmo filosofico ispirato allo zen, un invito a rallentare e a entrare in sintonia con l’essenza delle cose. Brindeau descrive con precisione come ogni elemento, dalle pietre disposte in modo asimmetrico ai muschi, dalle lanterne al silenzio avvolgente, sia concepito per favorire il distacco dal frastuono quotidiano e accompagnare l’ospite verso uno stato di raccoglimento e contemplazione. Un ruolo chiave è rivestito dallotsukubai, il bacile per le abluzioni, che non è solo un oggetto funzionale, ma un simbolo di purificazione fisica e interiore. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e rinnovamento spirituale, come suggerisce l’incisione presente su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知), un monito alla semplicità e alla gratitudine. Il roji si suddivide in due parti: il sotoroji, il sentiero esterno che segna il distacco dalla quotidianità, e l’uchiroji, il tratto più intimo, che conduce all’introspezione. Non si tratta solo di una transizione fisica, ma di un percorso simbolico che guida verso una dimensione più profonda dell’essere.

  Il secondo saggio esplora l’arte del bonsai, una pratica in cui natura e creatività si fondono in un dialogo raffinato. Brindeau mostra come il bonsai non sia una semplice pianta in miniatura, ma una rappresentazione simbolica dell’universo, espressione di equilibrio e impermanenza. Centrale è il nebari, l’intreccio delle radici visibili, emblema di stabilità e connessione tra terra e cielo. L’autrice collega quest’arte alla filosofia del mono no aware, la consapevolezza della bellezza effimera, e agli stili neagari e bunjin, che esaltano leggerezza e asimmetria. Ogni bonsai diventa così un microcosmo di cura e contemplazione, dove il tempo e la natura si intrecciano armoniosamente. Nel terzo saggio, Brindeau ci conduce in un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un’atmosfera sospesa tra memoria e trasformazione. Qui, l’abbandono non è segno di trascuratezza, ma un atto di restituzione alla natura, in cui il tempo scorre con un ritmo diverso, più vicino all’essenza stessa del paesaggio. L’autrice esplora il concetto di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi, che celebra l’imperfezione e l’effimero. Il muschio, simbolo di resilienza, e la luce soffusa che filtra tra le fronde,diventano protagonisti di una narrazione che richiama la fragilità e la bellezza dell’impermanenza. Il libro si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove il concetto di shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Ai margini di un tempio secolare, il Monte Hiei si staglia all’orizzonte, integrato perfettamente nella composizione del giardino. La natura e l’elemento costruito si fondono senza soluzione di continuità, abbattendo ogni barriera tra interno ed esterno, tra visibile e invisibile. Questo raffinato equilibrio invita il visitatore alla contemplazione, suggerendo una continuità tra la bellezza terrena e quella cosmica. Ogni sguardo rivolto alla montagna diventa un atto di comunione con l’universo, un’esperienza in cui il tempo sembra dissolversi in un’armonia senza tempo. Attraverso uno stile poetico e rigoroso, Brindeau offre un’opera che è molto più di una semplice descrizione di giardini: è un invito a riscoprire il valore della lentezza, della contemplazione e della profonda connessione tra uomo e natura.

Il sentiero che porta alla casa del tè.

Il primo saggio, che dà il titolo all’intera raccolta, si concentra sul roji, il “sentiero di rugiada” che collega il mondo esterno al padiglione del tè. Questo spazio, apparentemente semplice, è in realtà un microcosmo che incarna la filosofia zen e il principio di rallentare per entrare in sintonia con l’essenziale. Brindeau descrive come ogni elemento del roji – dalle pietre irregolari ai muschi, dalle lanterne al silenzio che permea il percorso – sia progettato per favorire la transizione dal caos quotidiano alla quiete contemplativa del rito del tè.

Un ruolo centrale è svolto dal tsukubai, il bacino per le abluzioni, che rappresenta un momento di purificazione fisica e simbolica. Il gesto di chinarsi per raccogliere l’acqua diventa un atto di umiltà e di rinascita interiore, incoraggiata dall’incisione, su molti tsukubai tradizionali: “Io so soltanto ciò che basta” (吾唯足知 ), un invito a riflettere sull’essenzialità e sulla capacità di apprezzare ciò che si possiede.

La suddivisione del roji in sotoroji (il sentiero esterno) e uchiroji (il sentiero interno) sottolinea una progressiva transizione sia fisica che spirituale: il primo invita a lasciarsi il mondo alle spalle, mentre il secondo accompagna verso un’introspezione profonda. Questo cammino è permeato dal concetto di Ichigo-Ichie (“un incontro, una volta sola”), che ricorda al lettore la preziosità dell’irripetibilità di ogni esperienza.

Brindeau non si limita a descrivere il roji come uno spazio fisico, ma lo trasforma in una metafora del viaggio interiore verso la consapevolezza e l’armonia, guidando il lettore in una riflessione che unisce estetica, spiritualità e natura.

Le radici: Paesaggio con bonsai

Il secondo saggio si addentra nell’arte del bonsai, un’antica pratica che unisce l’armonia naturale con la creatività umana. Brindeau analizza come il bonsai non sia una semplice pianta miniaturizzata, ma un’intera visione del mondo in miniatura, capace di esprimerne l’essenza attraverso la cura e l’attenzione del bonsai-ka.

L’autrice dedica particolare attenzione al nebari, l’intreccio delle radici visibili alla base dell’albero, simbolo di stabilità e connessione tra il mondo terreno e l’aria. Questo dettaglio, apparentemente tecnico, incarna una profonda riflessione sull’equilibrio tra opposti: forza e fragilità, permanenza e transitorietà.

Brindeau intreccia la narrazione con riferimenti alla pittura monocroma cinese e alla filosofia giapponese del mono no aware, sottolineando come l’arte del bonsai sia un’espressione della bellezza effimera e della sensibilità verso il ciclo vitale della natura. La descrizione degli stili neagari e bunjin, rispettivamente caratterizzati dall’esposizione delle radici e da una semplicità asimmetrica, amplifica l’idea che ogni bonsai racconti una storia unica, radicata nella tradizione ma aperta all’interpretazione personale.

Il giardino dimenticato di Komatsu

Nel terzo saggio, Brindeau esplora un giardino abbandonato, un luogo dove muschi e ombre si intrecciano per creare un microcosmo che riflette il concetto giapponese di kage (ombra) e l’estetica del wabi-sabi. Qui l’abbandono non è percepito come trascuratezza, ma come una restituzione della natura al suo ciclo vitale.

Il muschio, simbolo di resilienza, e l’ombra, con la sua mutevolezza, diventano protagonisti di un dialogo che richiama la fragilità e l’impermanenza della vita. Brindeau arricchisce il saggio con riferimenti culturali, come il teatro Noh di Zeami e il celebre saggio Elogio dell’ombra di Jun’ichirō Tanizaki, che approfondiscono il legame tra estetica, memoria e introspezione.

Questo giardino “dimenticato” si trasforma così in un luogo di meditazione, un rifugio che invita a riflettere sul rapporto tra uomo e natura, tra cura e abbandono.

Sul ciglio dell’Entsu-ji

Il volume si conclude con un viaggio nel giardino del tempio Entsu-ji a Kyoto, dove la filosofia dello shakkei (“paesaggio preso in prestito”) trova la sua massima espressione. Incorporando il MonteHiei all’orizzonte, il giardino dissolve i confini tra spazio naturale e costruito, creando un dialogo tra vicinanza e distanza, tra finito e infinito.

Brindeau esplora come la disposizione degli elementi del giardino inviti alla contemplazione e alla lentezza, trasformandolo in un luogo di connessione spirituale. Seduti ai margini del giardino, con lo sguardo rivolto alla montagna, ci si ritrova immersi in un’esperienza che trascende il quotidiano, riscoprendo l’interconnessione tra tutte le cose.


Il sentiero che porta alla casa del tè è molto più di una semplice raccolta di saggi: è un’opera che invita il lettore a un’esperienza sensoriale, intellettuale e spirituale. Véronique Brindeau, con la sua scrittura poetica e densa di significato, ci guida attraverso giardini che non sono solo luoghi fisici, ma anche metafore di un cammino interiore. Ogni pagina è un invito a rallentare, a osservare il mondo con occhi nuovi e a riflettere sull’essenza della vita.

Grazie alla sua profondità e alla sua bellezza, questo libro si rivolge tanto agli appassionati di cultura giapponese quanto a chiunque cerchi una pausa contemplativa nella frenesia del quotidiano. Un’opera da gustare lentamente, come un rituale, lasciandosi ispirare dal senso di armonia che ne emerge.

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IL SENTIERO

CHE PORTA ALLA CASA DEL TÈ

di Elisabetta Imperato

 

É uscito da poco per Casadeilibri, nella sezione Porte d’Oriente, “Il sentiero che porta alla casa del tè. E altri percorsi tra i giardini del Giappone”, una raccolta di quattro saggi di Véronique Brindeau sulla cerimonia del tè e sull’arte dei giardini giapponesi. Il testo, tradotto da Lorenzo Casadei che ne ha curato l’introduzione, è illustrato da un ricco apparato iconografico che accompagna il lettore in un magico viaggio nei quattro giardini più affascinanti del Paese del Sol Levante. Avevo da poco finito di leggere il bel libro di Pia Pera col titolo tratto dalla poesia della Dickinson “Al giardino ancora non l’ho detto” quando è giunta alla nostra redazione la bozza prossima alla pubblicazione della raccolta “Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del Giappone”, corredata da immagini straordinarie. Nell’introduzione si fa riferimento proprio agli scritti di Pia Pera e in particolare ad una recensione apparsa su Gardenia al Louange des mousses della Brindeau, tradotto da Casadei per la stessa casa editrice.

Il sentiero che porta alla casa del tè inizia con l’immagine di una soglia, una semplice porta di legno appena socchiusa, che divide la casa del tè dal flusso urbano e dai rumori della città. Come in un rito di passaggio, l’autrice ci accompagna attraverso il cammino del tè in una dimensione senza tempo, separata dal mondo urbano. È un sentiero che sembra uscito da un dipinto a inchiostro cinese del periodo Song dell’XI secolo. L’intero percorso è tracciato per agevolare l’approdo nell’interiorità. La meta non è altro che dentro di sé. Ogni tappa del percorso evoca una tensione verso l’altrove. La disposizione irregolare delle pietre predispone il cammino e richiede un’attenzione vigile, un passo giapponese dall’ andamento ritmico e musicale che rallenta il tempo. Si procede in uno spazio verde come in uno stato di sogno che ricorda le immagini che Hillmann, nel suo ultimo libro, definisce la via verde, immanente alla psiche, per salvare la terra dalla catastrofe ecologica. L’impressione che ne deriva è che sia sospeso lo scorrere delle stagioni, in una immersione iniziatica nel colore delle origini, cullati dal canto del vento tra i pini. Il muschio, che ricopre gran parte del cammino, attenua i rumori, e il bacino per le abluzioni, posto rasoterra, richiede il gesto umile dell’accovacciarsi che evoca la sacralità del rituale. Attraverso due sentieri si giunge al padiglione del tè per una cerimonia che ha nella sua essenza la purificazione dei cinque sensi.

Le radici: paesaggio con bonsai dà il titolo alla seconda tappa del percorso. La visione delle radici affioranti dei ficus e delle mangrovie (grandi vene della terra simili a vecchi giganti dai corpi nodosi) richiede uno sguardo verso il basso, gesto che si fa umile e ricorda l’accovacciarsi per accostarsi al bacino per le abluzioni. Da queste radici l’artigiano bonsaista trae ispirazione quando modella un piccolo albero, soprattutto olmi cinesi e alberi dell’ombrello, rispettando i precetti degli antichi pittori raccolti ne Gli insegnamenti della pittura del giardino grande come un granello di senape. Anche in questo caso il rapporto tra la pittura monocroma a china guida la mano del bonsaista celebrando l’unione tra poesia, arte e natura. Lo sguardo del bonsai-ka si dirige “più in basso, sempre più in basso” per scoprire la geometria vivente degli alberi. E le radici si rivelano essere creature di passaggio tra la terra e il cielo, l’oscurità e la luce.

Il giardino dimenticato di Komatsu. È la terza tappa del viaggio iniziatico che ci conduce in un luogo segreto e nascosto dell’isola dove domina il muschio, sposo dell’ombra. Ci incamminiamo in uno spazio-tempo sospeso e distante che sembra precedere l’apparizione dell’uomo sulla terra. L’ombra, ora continua ora discontinua, muta di densità nell’aria immobile, sotto l’effetto della luce filtrante, manifestandosi come sostanza fluida che ancora una volta viene paragonata agli effetti della pittura ad inchiostro a china. Il lettore è immerso in un paesaggio crepuscolare sotto un tetto di nubi. Lo spaesamento che ne deriva ha a che fare con l’oblio e con l’abbandono in cui per lungo tempo il giardino si è ritrovato separato dal mondo.

Sul ciglio dell’Entsu-ji. Nell’ultima tappa del nostro percorso raggiungiamo il primo tempio buddista situato in uno dei giardini più belli a nord est di Kyoto, progettato con intento pittorico per incorniciare il monte Hiei. Si tratta di uno scenario preso in prestito (shakkei), artificio tipico della cultura giapponese con cui il giardino amplia i suoi confini spingendo altrove lo sguardo del visitatore fino a catturare la montagna, inglobando il lontano nel vicino, oltre il gruppo dei cedri. Anche in questo caso, il tratto di cielo che si apre tra i pilastri che sostengono la tenda del tempio, rimanda all’estetica del vuoto dei dipinti a china. La costruzione confonde il senso delle distanze, cosicché si percepiscono cose vicine anche se lontane, cose lontane anche se vicine. Nel suggestivo gioco dello sguardo, uno specchio d’acqua può catturare un pezzo di cielo mentre la lontananza spaziale del monte, al contempo, si fa portatrice di una distanza temporale. La visione ci trasporta lontano, nel luogo di nascita del buddhismo, dove i monaci dal ritorno dalla Cina fondarono il primo monastero all’inizio del IX secolo.

L’attenzione ai dettagli e all’infinitamente piccolo (col muschio si può esprimere tutto, si legge nel libro), l’incontro alchemico tra l’acqua, l’aria e il fuoco, evocato dalla cerimonia del tè, la musica del vento tra le canne di bambù; tutti questi elementi trascinano il lettore in un’atmosfera fiabesca, offrono un rifugio dalla frenesia della città, dirottando l’attenzione, tanto del viaggiatore quanto del lettore, al presente del qui e ora. Ci sono tante ombre in questi giardini come in Perfect days di Wenders. C’è la stessa ritualità presa a prestito dai ritmi della natura. E ci sono tanti mondi dentro lo stesso mondo anche qui, come dice Hirayama alla nipote Niko nel giardino del santuario. Per altra via. Anche nel volume 1 della saga Kill Bill di Quentin Tarantino, quando la leggera porta di legno e carta di riso scorre, si supera una soglia metafisica. Lo scenario cambia e appare un tranquillo giardino d’inverno dove, in un simile spazio simbolico rovesciato, la neve scende leggera e densa nel buio della notte. Il giardino, nel bellissimo libro di Véronique Brindeau, diventa strumento di conoscenza, cammino che porta alla visione dell’essenza, stato di estrema chiarezza, unione perfetta tra corpo e mente che realizza quella armonia alla quale da sempre tendono tutte le arti giapponesi.

RECENSIONI KUNIO

Quaderni Asiatici 149 – marzo 2025

Diego Cucinelli (a cura di), Fiabe e leggende del Giappone. Antologia degli scritti di Yanagita Kunio, CasadeiLibri Editore, Padova, 2024, pagine 253, Euro 21,00. ISBN: 9791280146175

Questo libro ha il grande merito di far conoscere per la prima volta al pubblico italiano alcune opere di Yanagita Kunio (nato Matsuoka Kunio, 1875-1962), il padre degli studi giapponesi moderni sul folklore (minzokugaku). Come ci racconta Chiara Ghidini nella prefazione, Yanagita iniziò la sua carriera come funzionario del Ministero del Commercio e dell’Agricoltura, un lavoro che lo portò a contatto con i contadini e la loro vita. Da qui iniziò il suo interesse per le tradizioni autoctone. Nella sua attività confluirono il desiderio di comprendere e trasmettere i valori autenticamente giapponesi, come avevano fatto i kokugakusha (studiosi delle cose nazionali) del periodo Tokugawa (1603-1867) e quello di progredire nella comprensione di “questioni che possano gettare luce sul passato dell’umanità intera”. In questa seconda direzione lo spinsero inizialmente i suoi interessi letterari, che includevano la letteratura occidentale e gli fecero conoscere l’esistenza del sostrato precristiano della cultura europea attraverso autori come Ibsen e Anatole France.Successivamente, con lo studio sistematico delle fiabe, arrivò inevitabilmente a scoprire temi e motivi ricorrenti in Paesi anche lontanissimi tra loro. “Sebbene non possiamo spiegare con certezza il fenomeno, esso suggerisce l’esistenza di una causa profonda e sconosciuta” scrive Yanagita, e più avanti, tirando le somme sul lavoro suo e dei suoi allievi e colleghi in Giappone: “…forse inconsciamente, abbiamo iniziato a distinguere e interpretare, attraverso l’iniziativa dei nostri studiosi, questioni di grande rilevanza per il passato dell’umanità”.

La ricerca di Yanagita del carattere nazionale giapponese si concentrò quindi sulla cultura orale diffusa nelle campagne e tra le montagne, escludendo la città. Di questa cultura fanno parte sia le fiabe che le leggende. Qual è la differenza tra le due? Nella bella metafora di Yanagita, “le fiabe svolazzano di luogo in luogo: le si può trovare nella stessa forma dovunque si vada. Le leggende, al contrario, mettono radici in un luogo specifico dove crescono stabilmente”. Nelle parole più precise della postfazione di Diego Cucinelli, “mentre le fiabe hanno un incipit in genere privo di coordinate spazio-temporali precise e non entrano nei dettagli onomastici dei protagonisti […], la leggenda […] è connotata da precisi dettagli toponomastici e onomastici, nonché da riferimenti temporali. Le fiabe, infatti, non nascono per indurre le persone a credere al loro contenuto bensì principalmente a intrattenerle, mentre le leggende propongono una presunta verità, ossia intendono illustrare al fruitore l’origine di un determinato fenomeno e la natura dello stesso”. Le leggende tradotte in questo libro sono tre: Le origini del Daishikō, Storie e leggende di pesci con un occhio solo e Divine schermaglie. Il Daishikō era una festività dedicata al monaco Kūkai (774-835), conosciuto dopo la sua morte con il titolo di Kōbō Daishi (Gran Maestro Propagatore della Legge). Esaminando le leggende che parlano di lui, in cui “sembra essersi adirato o rallegrato un po’ troppo” e in cui spesso compare una donna anziana, Yanagita giunge alla conclusione che Daishi non significasse “Gran Maestro”, ma “figlio primogenito/a” (le due parole sono omofone), riferito a un dio bambino, che compare sempre con una donna accanto. Il fraintendimento sarebbe stato creato da persone alfabetizzate che, sentendo la gente di campagna nominare “Daishisama”, pensarono che parlasse di Kōbō Daishi. Per quanto riguarda la donna anziana, “l’uba, la ‘vecchia’, era in origine semplicemente una donna” a cui con il tempo si cominciò a pensare come ad un’anziana. Yanagita conclude: “[…] nelle storie trasmesse in Giappone dal passato si affacciano tuttora un bel po’ di fanciulli belli e vispi, in compagnia di una vecchia”.

Nel secondo saggio Yanagita passa dai pesci agli esseri umani o divini con un occhio solo, per concludere come le creature con questa caratteristica, pur suscitando “sia curiosità sia paura”, siano considerate predilette dalle divinità. Nell’ultimo discute le leggende sulle liti tra divinità, che riflettono a volte anche le rivalità tra fedeli, ma Yanagita ammette che è molto difficile comprendere la causa della nascita di queste leggende, che si perde nel tempo.

Tra i saggi su altri argomenti il più interessante è senz’altro La vita tra i monti, tradotto solo parzialmente data la sua estensione. Vi si discute, tra l’altro, il motivo per cui la divinità della montagna è spesso ritenuta femmina, e si parla della yamauba, o yamanba, e del suo corrispettivo maschile, lo yamachichi o yamajiji (rispettivamente “vecchia della montagna” e “vecchio della montagna”), enfatizzandone la caratteristica di cercare la compagnia umana piuttosto che l’isolamento e la ferocia. Almeno, questa è la caratteristica che viene attribuita a questi due personaggi dalla maggior parte delle testimonianze di chi le avrebbe incontrate, la cui attendibilità come fatti reali è peraltro decostruita dallo studioso.

Le due figure compaiono anche in due delle fiabe raccolte nel volume, Il mandriano e la yamanba e Lo yamajiji che legge il pensiero. Nelle altre fiabe si trovano, tra gli altri, i temi dei matrimoni interspecie, dei “bambini di nascita meravigliosa” e della riconoscenza degli animali verso gli esseri umani.

In conclusione il volume, offrendo una panoramica chiara ed esaustiva del percorso di Yanagita e delle tematiche su cui ha aperto un dibattito che continua tuttora, è un ottimo strumento per chi voglia cominciare ad accostarsi al folklore giapponese anche senza essere uno specialista.

 Irene Starace

 

ALIAS DOMENICA

Motivi sovrannaturali e strane creature negli scritti di Yanagita Kunio

C’era una volta nel Deccan

Mary Frere

C’era una volta nel Deccan

Tre storie popolari del sud dell’India 

della raccolta Old Deccan Days tradotte dal telegu.

Un viaggio alla scoperta del sud dell’India, delle sue tradizioni e culture più antiche. Ancora oggi, le storie raccontate da Anna rappresentano un risorsa preziosa sia per antropologi, linguisti e umanisti, che per gli amanti e appassionati dell’India. Questa piccola selezione di racconti, tradotti per la prima volta in italiano.

 

Mary cover (11 August 1845 – 26 March 1911) soprannominata May, era la maggiore dei cinque figli di Henry Bartle Frere e di Catherine (morta nel 1899), figlia del tenente generale Sir George Arthur.

Il padre di Mary prestò servizio nell’amministrazione coloniale e nel 1862 fu nominato governatore di Bombay. Nel 1868, Frere pubblicò Old Deccan Days che trascrive e riordina i racoonti originariamente tasmessi per via orale che la domestica Anna Liberata de Souza, le aveva raccontato in inglese.

Formato  13,5 x 21 cm.

Pagine  96 illustrato

Prezzo  12

ISBN-13 -979-12-80146-19-9

Il sentiero che porta alla casa del tè e altri percorsi tra i giardini del giappone

 

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Véronique Brindeau l’autrice de L’elogio del muschio e di Hanafufa il gioco dei fiori ci accompagna in quattro perscorsi tra giardini del Giappone.:

Il sentiero che porta alla casa del tè 

Le radici: paesaggio con bonsai

Il giardino dimenticato di Komatsu

Sul ciglio dell’Entsū-ji

 

Il sentiero che porta alla casa del tè – titolo di questa raccolta – è l’immagine perfetta della Via: la prepara e la riassume  […] Il cammino del tè è attenzione e presenza. Passo dopo passo, ad ogni passo si è già alla meta, e i piedi calpestano la Terra pura (jo do), quel regno della grazia che per lo zen si apre nel qui ed ora.  

Anche se rappresenta un pellegrinaggio montano, questo cammino spesso è davvero corto – come brevi sono i quattro scritti qui riuniti – ma è un vero viaggio quello richiesto al visitatore e nel nostro caso al lettore, invitato a imboccare un sentiero che potrebbe portare al di là del tempo e dello spazio.

Recensioni

Formato 17 x 24 cm. 

Pagine  96 illustrato

Prezzo  21

ISBN-13 – 979-12-80146-15-1

Fiabe e leggende del Giappone. Antologia di scritti di Yanagita Kunio

Cover Fiabe Kunio

Un viaggio nel cuore del folklore nipponico: un’antologia con racconti inediti che svela i misteri e le meraviglie della cultura giapponese, attraverso storie di spiriti, demoni e leggende radicate nel profondo della tradizione orale

Yanagita Kunio (1875-1962) è considerato il padre degli studi sul folklore giapponese (minzokugaku) e grazie al suo operato numerose fiabe della tradizione orale hanno per la prima volta trovato forma scritta. Lo stile impiegato da Yanagita, poi, è ricco ma al contempo semplice e costituisce di per sé uno deimotivi del grande successo riscosso dai suoi scritti dentro e fuori il Giappone. Il presente volume intende presentare al lettore italiano un’antologia degli scritti di da Yanagita: una rosa delle più belle fiabe, leggende e altri scritti.Le fiabe: i temi sono vasti e disparati: da storie di bambini di nascita meravigliosa a racconti su demoni, spiriti e altre creature fantastiche. Non mancano poi storie di matrimoni tra specie diverse (umano/non-umano) e di personaggi mitologici. (traduzioni di Diego Cucinelli) Tra gli altri scritti presentati; La vita tra i monti (traduzioni di Ikuko Sagiyama)Le origini del daishikō (traduzione di Francesca Fraccaro)Il corniolo giapponese; Le vacanze in montagna (traduzioni di Noemi Peroni)Storie e leggende di pesci con un occhio solo(traduzione di Isabella Dionisio)

Recensioni

Bushido e il Cristianesimo

Sasamori Takemi, Bushido e il Cristianesimo

Nel suo libro Bushido e Cristianesimo, uscito per la prima volta in Giappone nel 2013, il rev. Sasamori espone la sua visione con riferimenti alla storia e ai miti del Giappone e agli insegnamenti della Bibbia, sullo sfondo della sua personale storia di uomo cresciuto in una famiglia di origini samurai, nell’intento di mostrare dove dottrine apparentemente molto distanti possono convergere e portare nelle nostre esistenze una maggiore pienezza di significato.

bushido–e-cristianesimo-coverISBN  979-12-80146-12-0