LA VAL

Il neorealismo di Marcella Pedone
di Mauro Pancheri
LA VAL (rivista trimestrale cartacea),
ANNO XLIX – 2021 GENNAIO – MARZO n. 1
Sfogliare un libro in un tempo dove tutto sembra passare attraverso il digitale è un piacere unico. Un libro lo senti in mano, ha un suo profumo, ha una presenza fisica e soprattutto non sparisce schiacciando un tasto.
Rimane lì su un tavolo o su uno scaffale e nel tempo diventa “memoria fisica”. Il volume che presentiamo ai lettori in un certo senso non ci è nuovo nel contenuto in quanto nell’estate di due anni fa, abbiamo avuto l’onore di ospitare in una serata del Centro Studi a Pellizzano la fotografa Marcella Pedone. Ora questa signora vive a Milano e va verso i 102 anni; un incredibile e fortunato traguardo di vita.
L’occasione ci è stata offerta
da Romina Zanon, membro della direzione del Centro Studi e coautrice con Mirco Melanco del volume “Il neorealismo di Marcella Pedone. Fotografie e filmati di un viaggio identitario nei paesaggi di un’Italia perduta” (Casadei Libri, 2020). Si tratta di un volume voluto dall’Università di Padova in collabo- razione con il Museo Nazionale Scienza e Tecnologia di Milano che ripercorre l’attività di Marcella Pedone, sia come fotografa che come cineoperatrice. Si parla di una esperienza tutta femminile in un periodo stori- co dove questa professione era prettamente maschi- le. Non è un libro di sole fotografie, ma è corredato da un ampio apparato di analisi del contesto evolutivo riferito a un tratto di storia italiana che va dal 1950 al 1990. Le foto, comunque presenti nel testo, evidenziano una sensibilità non “mediata” ma diretta a raccontare dei momenti o delle situazioni sul campo e in molte occasioni senza astrazioni di sorta. Marcella Pedone ha viaggiato molto, è stata testimone di un passaggio epocale che ha portato il nostro paese a essere una nazione tecnologicamen- te evoluta da agricola com’era; un passaggio documentato da 170.000 scatti. Osservando con attenzione le immagini del libro si percepisce una forte volontà di riscatto del ruolo della donna, quasi una competizione con un fare maschile. A volte parrebbe lei stessa il soggetto ripreso in alcune foto, tanto è il suo coinvolgimento con la scena ripresa. Siamo felici che Romina e Mirco Melanco abbiano fatto questo lavoro minuzioso di ricostruzione delle circostanze di vita di Marcella Pedone dando il giusto risalto alla qualità del suo non facile lavoro di fotografa. Il suggerimento è di leggere questo libro e di tanto in tanto fermarsi per una sosta fra le parole a fissare una foto come si fa per osservare un paesaggio quando si per- corre un sentiero; in fondo un libro è un percorso dove il passo è scandito da parole in movimento da pagina a pagina. Una recensione non deve togliere l’effetto sorpresa della lettura; pertanto non vado oltre e vi suggerisco due foto che raccontano la fatica femminile: la prima numerata con il 23 nella sezione “Appendice iconografica II” dal titolo Le lavandaie del rifugio Pizzini – Frattola, Gran Zebrù, Gruppo Ortles Cevedale, 1970, la seconda con il numero 28 dal titolo Risa- ia, essicazione sull’aia, Lombardia, 1955. Sono due foto in due ambienti geografici diversi: la montagna e la pianura, l’aria fredda e la calura. È probabile che Marcella abbia voluto fissare nella prima fotografia la resilienza della donna e nella seconda la sua forza, ovvero due energie che raccontano il proprio tempo in un contesto identitario marcato da una vita non facile.

Marcella Pedone

Il neorealismo di Marcella Pedone. Fotografie e filmati di un viaggio identitario nei paesaggi di un’Italia perduta

Coverpedone

 

 

La vicenda biografica e professionale della fotografa e cineoperatrice  sperimentale Marcella Pedone (Roma 1919).

Attraverso un linguaggio fluido al confine tra istanze molteplici, l’artista scatta nel periodo 1950-1990 170.000 fotografie neorealiste a colori da lei donate al Museo Nazionale Scienza e Tecnologia di Milano nel 2017 e gira circa 9.000 metri di pellicola documentaria in 16 mm. In anni dominati da canoni maschili, Pedone delinea, come forse nessun’altra fotografa della sua generazione, un atlante visivo della provincia italiana. Traduce in immagine il paesaggio antropico nell’articolata trama di relazioni culturali che ne costituiscono l’identità tra tradizione e progresso.

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Recensione La Val

Recensione ARTE TRENTINA

Todi. Il Jidai Matsuri o “Festival delle ere”

Jidai Matsuri o “Festival delle ere”, al Todi Festival la presentazione del volume della fotografa Paola Ghirotti

Jidai Matsuri o “Festival delle ere”, al Todi Festival la presentazione del volume della fotografa Paola Ghirotti

L’autrice mette in mostra anche alcuni scatti tratti dall’omonimo libro nello spazio “un Giappone” a Todi. Nel 2019 presentò una suggestiva mostra sul campione automobilistico brasiliano Ayrton Senna, a 25 anni dalla morte

Jidai Matsuri o “Festival delle ere”, al Todi Festival la presentazione del volume della fotografa Paola Ghirotti

Nell’ambito del Todi Festival 2020, domenica 6 Settembre verrà presentato il volume Jidai Matsuri o “Festival delle ere”, che continene le splendide immagini della fotografa Paola Ghirotti. Alcune di queste preziose immagini sono inoltre esposte sempre a Todi nel contesto della mostra “Jidai Matsuri 1990-2020” presso lo spazio “un Giappone” (info e prenotazioni calendarioungiappone@gmail.com).

Per trent’anni Ghirotti ha seguito personalmente il Jidai Matsuri o “Festival delle ere”, una delle tre feste più importanti della città di Kyoto, insieme all’Aoi Matsuri e al Gion Matsuri. Il festival ricorre ogni anno il 22 ottobre e permette la possibilità di ammirare i diversi abiti storici giapponesi che testimoniano le varie epoche, a partire dalla restaurazione Meiji (1868 – 1912) e a ritroso fino al periodo Heian (794 – 1191).

Nel 2019 Paola Ghirotti aveva presentato al Todi Festival la mostra fotgrafica “Alla velocità del cuore”, dedicata al grande campione automobilistico Ayrton Senna, del quale la fotografa ha saputo cogliere, seguendolo nel campionato del mondo di Formula Uno, sguardi, emozioni e pensieri inediti e profondi.

La presentazione del libro del 6 settembre si terrà al Palazzo del Vignola alle ore 17, è già possibile prenotare i posti presso la biglietteria del Todi Festival (Teatro comunale) o a qusto lilnk: https://www.todifestival.it/around-todi/incontro-paola-ghirotti

La mostra resterà invece aperta al pubblico fino al 27 settembre 2020.

Todi. Il Jidai Matsuri o “Festival delle ere” raccontato attraverso l’obiettivo di Paola Ghirotti (http://www.artemagazine.it)

l 6 settembre, in occasione del Todi Festival, la fotografa presenta il volume “Jidai Matsuri. Festival of Ages/1990-2020”. Dal 31 agosto al 27 settembre, alcuni scatti contenuti nel libro saranno in mostra presso lo spazio “un Giappone”

TODI – Il 31 agosto la fotografa Paola Ghirotti inaugura, presso lo spazio “un Giappone” a Todi,  la mostra “Jidai Matsuri 1990-2020”, nella quale sono esposte una serie di splendide immagini tratte dall’omonimo libro, che verrà presentato il 6 settembre, in occasione della XXXIV edizione di Todi Festival  (3-6 settembre 2020). 

Per trent’anni Ghirotti ha seguito il Jidai Matsuri o “Festival delle ere”, una delle tre feste più importanti della città di Kyoto, insieme all’Aoi Matsuri e al Gion Matsuri. Il festival si svolge ogni anno, il 22 ottobre, e offre la possibilità di ammirare i diversi abiti storici giapponesi che testimoniano le varie epoche, a partire dalla restaurazione Meiji ( 1868 – 1912) e a ritroso fino al periodo Heian  (794 – 1191).Per l’incontro del 6 settembre, che si terrà al Palazzo del Vignola, è già possibile prenotare i posti  presso la biglietteria del Todi Festival (Teatro comunale). La mostra resterà invece aperta al pubblico fino al 27 settembre 2020. Per informazioni e prenotazione: calendarioungiappone@gmail.com

Minimalismo e narratività musicale

Minimalismo e Narrativa

Con questo saggio vengono delineate le principali caratteristiche e peculiarità che garantiscono al minimalismo musicale un suo impe- go versatile e pervasivo nell’ambito della musica per film. A parti- re dall’applicazione della teoria generativa semiotica di Algirdas J. Greimas allo studio della significazione musicale del minimalismo, vengono esaminate varie modalità di interazione tra colonna-sonora e altri codici espressivi che interagiscono con essa nell’ambito della musica applicata.

Giulio Andreetta
Al di là delle definizioni, è musicista e musicologo. È compositore di musica per orchestra e per pianoforte. Concertista, ha vinto nu- merosi premi internazionali sia in qualità di interprete che di com- positore. Affianca l’attività musicale a quella di insegnamento nei licei musicali. Nel 2019 è stata pubblicata una sua raccolta di poesie, dal titolo Non è più tempo di amare. Dello stesso autore in questa collana, Minimalismo e Misticismo.

MINIMALISMO E MISTICISMO

Minimalismo e misticismoMINIMALISMO E MISTICISMO

A partire dalle ricerche del semiologo Algirdas Greimas e del mu- sicologo Heinrich Besseler, con questo breve studio si mette in luce l’esistenza di una categoria semantica, che si è definita ‘mistica’, in rapporto all’ascolto e alla genesi delle composizioni minimaliste. Ci si è serviti inoltre di alcune elaborazioni concettuali del filoso- fo austriaco Ludwig Wittgenstein e del celebre mistico medievale Meister Eckhart. Tali riflessioni sembrano essere dimostrate, inoltre, dalla forte connessione che la musica minimalista, fin dai suoi esor- di, ha sempre intrattenuto con forme musicali lontane dalla tradi- zione occidentale e di solito associate all’ambito mistico.

GIULIO ANDREETTA

al di là delle definizioni, è musicista e musicologo. È compositore di musica per orchestra e per pianoforte. Concertista, ha vinto nu- merosi premi internazionali sia in qualità di interprete che di com- positore. Affianca l’attività musicale a quella di insegnamento nei licei musicali. Nel 2019 è stata pubblicata una sua raccolta di poesie, dal titolo Non è più tempo di amare.

Jidai Matsuri

Jidai

L’antico festival che celebra l’anniversario della fondazione di Kyoto

magistralmente raccontato 

dagli scatti di Paola Ghirotti 

1990- 2020 

30 anni di osservazione del matsuri, dei suoi preparativi, dei dietro le quinte. I colori e i protagonisti del festival più suggestivo del Giappone.

con testi di Franco Fusco e Yasue Hori

in italiano, inglese e giapponese.

Copertura posteriore
Abutsu-ni preso nel 2010
Jidai Matsuri

Recensioni

Tanizaki Jun’ichirō

Tanizaki Jun’ichirō 谷崎 潤一郎

Jun’ichirō Tanizaki (1886-1965) non ha senza dubbio ormai bisogno di presentazioni: è, con Mishima e Kawabata, uno dei romanzieri giap-ponesi più noti, in tutto il mondo. Come altri mostri della letteratura mondiale, ha lasciato un’opera gigantesca, giocando con stili, linguaggi e generi, passando dal romanzo letterario vero e proprio al thriller, al romanzo storico e al racconto onirico.

Numerosi suoi romanzi, novelle e saggi sono tradotti nelle lingue occidentali, ed è stato il primo scrittore giapponese a vantare un tomo a suo nome nella Pléiade. Molti testi della sua proteiforme opera restano tuttavia ancora da tradurre, tra i suoi lavori meno conosciuti ma talvolta non inferiori alle opere maggiori.   (Ryoko Sekiguchi)

Tra le sue numerose opere ricordiamo:

  • Neve sottile (Sasame yuki, 1948), trad. Olga Ceretti Borsini e Kizu Hasegawa, Milano, 1961; Longanesi
  • Diario di un vecchio pazzo (瘋癲老人日記, Fūten rōjin nikki, 1962), trad. Atsuko Ricca Suga, Milano: Bompiani 1984
  • La madre del generale Shigemoto (少将滋幹の母, Shōshō Shigemoto no haha, 1950), trad. Guglielmo Scalise, Milano: Mondadori 1966
  • Vita segreta del signore di Bushu (武州公秘話, Bushukō hiwa, 1935), trad. Satoko Toguchi e Atsuko Ricca Suga, Milano: Bompiani 1970; Garzanti
  • La croce buddista (卍, Manji, 1928), trad. Lydia Origlia, Parma: Guanda 1982; Milano: TEA 1992.
  • Libro d’ombra (陰翳礼讃, In’ei raisan, 1933), a cura di Giovanni Mariotti, trad. Atsuko Ricca Suga, Milano.
  • Il demone (in due parti: Akuma e Zoku Akuma, 1912), trad. di Lydia Origlia, Milano: ES  1995
  • Divagazioni sull’otium e altri scritti, a cura di Adriana Boscaro, Venezia: Cafoscarina 1995.
  • La morte d’oro (金色の死, Konjiki no shi, 1916), a cura di Luisa Bienati, Venezia: Marsilio 1995
  • I piedi di Fumiko (富美子の足, Fumiko no ashi, 1919), a cura di Luisa Bienati, trad. Luisa Campagnol e Luisa Bienati, Venezia: Marsilio 1995
  • Yoshino (吉野葛, Yoshino kuzu, 1931), a cura di Adriana Boscaro, Venezia: Marsilio, 1998
  • Sulla maestria (Geidan, 1933), a cura di Gala Maria Follaco, Milano: Adelphi (coll. “PBA” n. 659), 2014

Recensioni de Lo specchio del gesto

Lo ‘specchio’ e il ‘gesto’ di Coomaraswamy

Corriere Nazionale Cultura 31 Gennaio 2017
di Pierfranco Bruni

Lo specchio e il gesto di Ananda Kentish Coomaraswamy a 70 anni dalla morte e a 140 dalla nascita. Non sempre è possibile specchiarsi in uno specchio. Non sempre è possibile afferrare un gesto.

Ananda Kentish Coomaraswamy nato a Colombo il 22 agosto del 1877 è morto nel Needham il 9 settembre del 1947. Il mistero indiano nell’arte è stato il suo viaggiare tra le griglie simboliche di un Oriente nel quale il suo esistere si è consolidato e un Occidente la cui misura degli spazi è una trasparenza delle occasioni delle eredità greche e dei riti. Una trasparenza anche dal punto di vista etno – antropologico che pone in essere questioni che esulano da aspetti estetici per penetrare in una filosofia dell’essere.

La mano che non vedi ha lo sguardo che possiedi. Sul filo di questa lama cammino senza timore. Mai chiedendomi cosa è la vita e mai sostando nello spazio delle domande già poste e mai risolte. Senza mai far rumore, con l’insegnamento di Coomaraswamy, perché so che il silenzio è sempre l’esplosione del necessario e il rumore e il tentativo dell’inutile. La magia è nella filosofia di fare dell’arte il necessario per diventare viaggiatori di simboli.

L’arte come essere e non solo come estetica. L’Oriente come identità dell’essere dentro la visione delle arti. È in questo incastro magico – sacrale che si giocano gli orizzonti di una alchimia, in cui l’Oriente ha non virtuosismi ma Sapientia del pazientare nell’osservazione della Parola che è Incipit di conoscenza osservando sempre gli occhi del serpente, simbolo primordiale, e lo sguardo dell’aquila, simbolo “cerchiatore”, (chiude sempre il cerchio).

Dal suo “indagare” tra il mito e il Buddismo, il cammino conduce alla trasfigurazione dell’arte nel vissuto della natura (penso a La trasfigurazione della natura nell’arte, Rusconi, 1976 e prima a Sapienza orientale e cultura occidentale, Rusconi, 1975). Un penetrare nel sottosuolo delle caverne dell’anima che non nascondono, ma rivelano.

La rivelazione è un grande brivido che tocca le corde di un magico avvertire. Si avverte perché è già tutto dentro di noi come cesellatura lunare di un mito oltre l’archetipo della conoscenza. Oltre tale dimensione c’è la visione che attraversa comunque il labirinto e grazie al brivido si taglia l’immaginario (penso a Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, 1987).

La figura di Budda diventa fondamentale sia come figura sacrale, il personaggio e il divino nel camminamento verso l’Illuminazione, sia come tradizione di un percorso che lega il mistero dell’arte indiana alla dottrina buddista vera e propria in termini “filosofici” (penso a La vita e l’opera di Sakyamuny Buddha, Il cerchio, 1992, a Vita di Buddha, Milano, SE,1993 e a Buddha e la dottrina del buddhismo, Luni, 1994).

La questione centrale resta il colloquiare tra il tempo e l’eternità. Ovvero consiste nel vivere in quel “Ho trascorso un istante che è durato un’eternità…”. Un’indicazione fondante che intreccia il rito della tradizione come anima penetrante con il sacrificio che si legge nel rito stesso sino a definire il cammino come il lungo cammino verso l’infinito che si veste di eterno. Sono i simboli che si decifrano e si dichiarano.

Così come nella metafora del “grande brivido” che è espressione dell’essenza di tutto: “In ultima analisi, il rito, come ad esempio quello dell’antico Sacrificio Vedico, è un procedimento interiore, di cui le forme esterne sono soltanto un supporto, indispensabile per coloro che stanno ancora percorrendo il cammino e ancora non ne sono giunti al termine, ma superfluo per coloro che ne hanno già raggiunto la fine, e che, per quanto possano ancora essere nel mondo, non sono più del mondo. Nel frattempo, non esiste pericolo o ostacolo maggiore dell’iconoclastia prematura di coloro che ancora confondono la propria esistenza con il proprio essere, e che ancora non hanno “conosciuto il Sé”; questi sono la stragrande maggioranza, e per loro il tempio e tutte le sue raffigurazioni servono da indicazioni lungo il cammino” (Ananda K. Coomaraswamy, in Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, cit.).

Infatti è necessario non dimenticare che dove c’è il mistero non si può chiedere alla ragione di avere un senso. Le culture non diventano processi culturali ma identità originaria attraverso le quali gli uomini e i popoli si fanno civiltà. Le civiltà non si reggono con la storia, ma con le impalcature degli archetipi, dei miti, dei simboli che diventano metafisica dell’esistere e ontologia della metafisica del tempo. In un tale viaggio il mistero è il tutto nell’alchimia di una magia che recupera l’esistenza stessa come spiritualità e come eredità di un testamento onirico.

Un testamento in cui la tradizione ha le radici di una antropologia archetipale fatta di simboli e segni, tracce e scavi di memoria in un tempo di spazi e di eterne rappresentazioni magiche. Uno spazio prospettico che indirizza e nel quale si specchiano i codici dell’anima. Tra i quali “L’occhio della necessità svela che ciò che facciamo è soltanto ciò che poteva essere” (James Hillman). Ananda Kentish Coomaraswamy in una filosofia dell’anima ha posto il centro del suo camminamento come se fosse “lo specchio del gesto” (penso a Lo specchio del gesto, CasadeiLibri, 2011) in un distillato in cui lo sguardo ha gli occhi dell’anima e vivono, gli occhi, dentro il labirinto spirituale, con l’infinita fine del tempo e dell’eterno, tra l’immortalità e l’orizzonte. Si vive di specchi di gesti di tramandi negli occhi imperturbabili di un messaggio di tempo e di un pensiero di eternità che è il contemplante Divino che vive la Tradizione.

Ma il tempo può sempre cercare di imitare l’eternità.

Recensioni Club dei buongustai

“Il club dei buongustai”

di Gabriele Ottaviani

Non c’è altra vera dieta che quella di mangiare la propria fame.

Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi, Jun’Ichirō Tanizaki, Kōzaburō Arashiyama, Osamu Dazai, Rosanjin Kitaōji, Shiki Masaoka, Kenji Miyazawa, Kafū Nagai, CasadeiLibri editori, a cura di Ryoko Sekiguchi, traduzioni di Ryoko Sekiguchi, Patrick Honnoré e Lorenzo Casadei. Illustrazioni La Cocotte. Siamo quello che mangiamo, si sa. E nutrirsi è fondamentale. Senza cibo non c’è vita. E al mondo c’è chi spreca l’impossibile. E chi letteralmente fa la fame. Il cibo è cultura. Identità. Storia. Appartenenza. Famiglia. Un atto d’amore. In questa splendida, ricca, dotta antologia ogni cosa è illuminata, ogni emozione è raccontata. Senza retorica, con stile, garbo, scintillante brillantezza. Da non perdere.

Il club dei buongustai

di Andrea Coco (Leggere Tutti, marzo 2018)
Mangiare è un tema immancabile nella narrativa giapponese moderna e contemporanea, come nella fiction e nei manga. Un momento così importante da costituire una sorta di marchio di fabbrica dell’industria culturale nipponica. A prendere atto dell’importanza del cibo e del mangiare nel paese del Sol Levante è stata Ryoko Sekiguchi, poeta e traduttrice, che dal 1997 vive a Parigi e ha pubblicato opere sia in lingua giapponese che in francese. In occasione di una serie di incontri mensili sul tema cucina e scrittura, Ryoko si è resa conto di non aver incontrato alcuna difficoltà nel trovare delle storie adatte da sottoporre al pubblico, al contrario di aver provato l’imbarazzo della scelta. Fino a prendere preso atto, che nel suo paese di origine il cibo si associa molto bene a qualsiasi genere letterario, una specie di ciotola ideale per contenere il piatto (il genere letterario) che si vuole descrivere. Nasce così questa raccolta, che prende il nome dal titolo di un’opera di Jun’ichirô Tanizaki, Il club dei buongustai, dove sono riuniti racconti culinari dal XII° secolo ai giorni nostri, ognuno dei quali affronta un aspetto della vita umana. Abbiamo così i ricordi della propria vita legati indissolubilmente al sakè (Osamu Dazai); la descrizione della preparazione del sushi (Kanoko Okamoto), un procedimento per ricordare la madre; mentre attraverso le cento ricette di tofu scritte da un anonimo del XVIII° secolo, così simili a poesie, la testimonianza di quanto la cultura culinaria si fosse diffusa nella società nipponica. A seguire la breve impressione della cucina occidentale (Rosanjin Kitaōji) ovvero il racconto di un pranzo presso il celebre ristorante francese la Tour d’Argent; mangiare come segno che si è ancora vivi (Shiki Masaoka); due storie di funghi, scritti da un anonimo del XII° secolo, utilizzati come arma per uccidere e come forma di esperienza mistica; il rapporto tra la fame e l’immaginazione (Kōzaburō Arashiyama) ovvero l’importanza della fame come forza creatrice di idee. E ancora l’offerta del cibo come nutrimento sacro da parte dello scrittore (Kenji Miyazawa) alla sua giovane sorella; la cucina come segno di appartenenza sociale (Kafū Nagai) in un Giappone post bellico. Per ultima la storia di Jun’Ichirō Tanizaki, che riunisce quanto affrontato nei singoli racconti e mescola gastronomia e sensualità in un ricerca ai limiti dell’erotismo. Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi è un esempio di quanto complesso e profondo sia il pensiero nipponico riguardo il cibo e al senso della vita.

AA.VV.
Il club dei buongustai e altri racconti culinari giapponesi
A cura di Ryoko Sekiguchi
Traduzione dal giapponese di Ryoko Sekiguchi e Patrick Honnoré
Traduzione dal francese di Lorenzo Casadei
Casadeilibri, 2017
pp. 160, euro 16,00