Recensioni LA Campana Sommersa e L’Ascensione di Adele

Levante News LA Voce del Tirreno

UNA MISSIONE PER LA GIUNTA CHE VERRÀ

Rapallo: a Roma “tolgono la polvere” dalla targa di Hauptmann, nume dimenticato da 30 anni

Siamo consapevoli che la posterità di Gerhart Hauptmann sia roba difficile da inserire in un programma elettorale, ma anche il sonno ormai trentennale della memoria di questa Premio Nobel – a cui cento anni fa una Rapallo colta e cosmopolita guardava con ammirazione – ha fatto il suo triste tempo. Consigliamo dunque agli aspiranti assessori o incaricati alla cultura di non lasciarsi sfuggire “La campana sommersa e l’ascensione di Hannele”. Da qui, dalla traduzione di due capolavori del teatro simbolista, si può ripartire per diffondere la conoscenza di Hauptmann al pubblico italiano. La riscoperta del drammaturgo tedesco da parte del mercato editoriale nostrano, di cui va dato merito all’Editore romano “CasadeiLibri” e ai curatori Eduardo Ciampi e Inesa Serbayeva, dovrebbe essere una vera e propria notizia nella città che in Hauptmann – parole e musica del giornalista Carlo Linati – aveva il suo “nume indigete”, la sua divinità protettrice.

La targa affissa nel 1995 sul muro del Palazzo di Via Avenaggi che ne ricorda il primo soggiorno, nel 1925, è oggi lettera morta in cerca di un nuovo “perché”; un “perché” che non dovrebbe essere difficile individuare nella sorprendente attualità dell’autore. Scrivono Ciampi e Serbayeva: “Nella cosiddetta era industriale, il rapporto dell’uomo con la natura viene a mutare radicalmente (…) L’idea della sacralità del creato viene completamente annullata e sostituita dal principio dell’io dominante. L’uomo non è più il perno che mantiene e controlla l’equilibrio biologico e spirituale della terra: è un predatore vorace che la assale, la colonizza e la ferisce”

.Ne “La campana sommersa” – fra debiti goethiani e richiami alla tradizione fiabesca dei fratelli Grimm – va in scena il conflitto fra il cristianesimo e il paganesimo, fra il Dio Personale e l’Assoluto simboleggiato dal Sole, fra il Maestro Enrico e il gli esseri soprannaturali disturbati dall’affaccendarsi dell’uomo, un dramma che indica la necessità di una riconciliazione che ancora interroga la nostra weltanschauung. L’autore tedesco ha anche il merito di esplorare terreni fragilissimi e intrisi di emotività – come la morte per suicidio di una bambina, Hannele – offrendo chiavi di lettura che sottraggono la morte alla visione disperata che ne ha l’uomo moderno: “Il bambino, non separando la vita dalla morte, il sogno dalla realtà, si fida dell’esperienza della sua anima, e non della coscienza empirica di veglia”. In Hauptmann la morte – angelo in veste nera – è forte e bella. E’ difficile distinguerla dalla fiaba. “Il bambino, che vive nel mondo della fantasia (…), attraverso la morte, manifestato sotto forma di fiaba, è liberato dall’incessante obbligo dell’essere (…) Hannele diventa figlia del cielo (…), l’ascensione è un’impennata dell’anima, un’eccitazione festosa”.Agli occhi dell’uomo di oggi Hauptmann si muove sul limite della provocazione e del tabù, sfidando sia la moderna visione scientifica della natura sia il terrore della morte che nutre una società arroccata sulla vita biologica come sua unica, possibile dimensione esistenziale. Qui, nella capacità di condurci oltre gli schemi più usurati del nostro tempo, risiede la sua preziosità. La sua riscoperta è allora qualcosa di più di un vezzo intellettuale o di una vanità di provincia. È una missione spirituale che Rapallo, città priva da decenni di una missione sullo scenario culturale italiano, può prendere sulle sue spalle anche in vista della riapertura delle “Clarisse”, a cui un nume indigete non guasterebbe affatto.

Gerhart Hauptmann, La Campana sommersa e Ascensione Hannele

CoverCampana

 

Gerhart Hauptmann

La Campana sommersa e l’Ascensione di Hannele

Il teatro simbolista del premio Nobel per la letteratura 1912, per la prima volta tradotto e raccolto in un’unica pubblicazione. Due testi tragici di grande spessore drammaturgico, tradotti per poter essere utilizzati in auspicabili nuove rappresentazioni teatrali, o fruiti come letture stimolanti ed edificanti.

Gerhart Hauptmann (1862-1945) si affacciò al mondo della letteratura con opere ispirate al movimento letterario naturalista, del quale, ben presto, divenne il massimo esponente. La sua personalità poliedrica e versatile lo portò a varcare i confini del naturalismo per esplorare, in maniera sempre più ispirata, nuove aree dell’intimismo neo-romantico e del simbolismo.

Sono venuto di corsa e ho i piedi che mi sanguinano; dammi dell’acqua per lavarli.Il sole caldo mi ha riarso; dammi vino da bere in modo che mi rinfreschi.

(L’ascensione di Hannele)

Questi luoghi son belli… Vi è qui come uno strano e sonoro fragore. I pini si scuotono così stranamente e lanciano musiche attraverso i loro rami oscuri; solennemente agitano le cime. La leggenda…, sì la leggenda della selva… Essa ha dei mormorii segreti, attorciglia, divelle e solleva il fogliame, canta tra le erbe dei boschi e…, e vedi, avvolta nella candida nebbia con la sua lunga veste incantata, essa avanza a braccia protese… mi fa segno con la mano… mi è vicina… mi tocca… l’orecchio, la lingua… gli nocchi…

(La Campana sommersa

Recensioni

TANGO la danza sconfinata

TANGO LA DANZA SCONFINATA

Il tango da respirare, ascoltare, ballare. Come danza, improvvisazione, condivisa nelle coppie in pista. Non fissato una volta per tutte. E allora, perché scriverne? La scrittura definisce e circoscrive i suoi oggetti e il tango inafferrabile. Ma, se lo si vive, si cerca di farlo proprio, di conoscerlo, di entrare nel suo mistero. In milonga, in scena, sugli schermi, nelle onde e nei ritmi della musica, il tango rinasce ogni notte, viaggia i continenti, cambia musica, instancabilmente. Non solo tacchi e spacchi, bravura mascolina, passione e seduzione – anche – ma geometrie e architetture, ascolto di sé e dell’altro/a, condivisione di un piacere e anche cambio de rol. Il tango personale e universale. 

Il tango diventato nel tempo anche spettacolo, sfida di virtuosi, in palcoscenico, teatro musicale con un gigante come Astor Piazzolla, pop nel mix con l’elettronica. Il tango come danza, il tema che l’autrice ha scelto di indagare a tutto campo, senza limiti né pregiudizi, con la massima apertura e curiosità, in un intreccio di storia e attualità, guardando già al domani.

Elisa Guzzo Vaccarino, laureata in filosofia, formata alla danza accademica e contemporanea, si occupa di balletto e di danza da decenni su quotidiani, attualmente QN, periodici e riviste, Ballet2000, Classic Voice, Fyinpaper online; firma saggi per Fondazioni Liriche e teatri, per booklet di DVD, cataloghi d’arte; collabora con la Biennale Danza e l’ASAC di Venezia, oltre che con ERT-“Carne”, è stata consulente di Torino Danza Festival dal 1987 al 1997 e del Premio Carla Fendi di Spoleto. Ha pubblicato libri su Béjart, Kylián, Bausch, Balanchine, Cunningham, Forsythe, la danza futurista e quella globalizzata, Cuba, il tango, la Geopolitica della Danza, parlando alla radio, RAI 3, realizzando programmi televisivi sui canali satellitari culturali (Tele+3, Rai Sat Show, Rai 5) e curando mostre come La Danza delle Avanguardie al MART di Rovereto-Trento. Ha insegnato Storia ed Estetica della Danza all’Università, in Italia e all’estero, e alla scuola di ballo della Scala, curando poi il coordinamento artistico del MAS di Milano. Dal 2023 fa parte del Consiglio Superiore dello Spettacolo del Ministero della Cultura.

tango

 

PRESENTAZIONE SU RA3 suite magazineI

https://www.raiplaysound.it/audio/2024/06/Radio3-Suite—Magazine-del-24062024-1a06f56f-23f8-4bce-b48d-3baf73bd4762.html

Recensione Neve su foglie vermiglie

ROCKERILLA

luglio 2024

Il riconoscimento dell’unità di tutte le cose (simboleggiato dal bianco della neve) di fronte alla molteplicità dei fenomeni di cui facciamo esperienza (in metafora l’infinita varietà di sfumature vermiglie delle foglie) è al centro della pratica del Dharma e costituisce anche il punto di fuga della poetica meditativa e pacificante del maestro zen Eihei Dögen Zenji (1200-1253), un composto invito – quasi privo di gesto – al distacco dai sentimenti umani attraverso la contemplazione poetica della natura. Il curatissimo volume edito da CasadeiLibri raccoglie waka e kanshi, poesie rispettivamente in giapponese e in cinese, selezionate, tradotte e squisitamente commentate da Shöhaku Okumura con precisione filologica e profonda padronanza della materia e impreziosite dalle eleganti calligrafie di Norio Nagayama. Vivamente raccomandato agli amanti del Paese del sol levante e ai cultori dell’estetica e della filosofia zen.

Alessandro Hellmann

 

SANS FICTION
EIHEI DŌGEN ANTEPRIMA. NEVE SU FOGLIE VERMIGLIE

Una storia semplice: “Una volta Panchan stava camminando per il mercato e vide un cliente che comprava carne di maiale. [Panshan ha sentito il cliente] dire al macellaio: “Tagliamene un bel pezzo”. Il macellaio posò il coltello, rimase in piedi con le mani giunte in shashu e disse: “Signore, quale non è un buon pezzo?” Dopo aver ascoltato queste parole, Panshan ebbe una profonda intuizione”.

L’illusione delle soluzioni facili: “Alla ricerca della spada” si riferisce alla storia di una persona la cui spada cadde in acqua mentre era a bordo di una barca. Questi fece un segno sul lato della barca dove aveva perso la spada. Un’altra persona gli chiese: “Cosa stai facendo?” Rispose: “Cercherò la spada quando la barca raggiungerà la riva”.

È in libreria Neve su foglie vermiglie, la raccolta di poesie del maestro zen Eihei Dōgen commentate da Shohaku Okumura (Casadeilibri 2024, pp. 316, € 23, con traduzione di Michel Gauvain e Lorenzo Casadei).

Eihei Dōgen (1200 – 1253) è stato uno dei più importanti maestri dello zen giapponese, fondatore della scuola buddhista Zen Sōtō. La più diffusa e radicata in Occidente.

Il titolo “Neve su foglie vermiglie” evoca davvero un’immagine suggestiva e profonda, che riflette l’armonia tra unità e molteplicità, concetti fondamentali nella pratica zen. La poesia degli waka, precursori degli haiku, è intrisa di significati stratificati che penetrano nell’animo umano, ma l’autore riesce comunque a comunicare in modo immediato e accessibile attraverso questa forma poetica. La comprensione della poesia diventa così alla portata di tutti, offrendo ai lettori italiani l’opportunità di immergersi nelle profonde metafore del maestro Zen e di esplorare il significato più profondo della vita e della natura.

Tra i molti argomenti trattati, Dogen sottolinea in particolare i seguenti punti: vedere l’impermanenza, allontanarsi dall’io centrato sull’ego, essere liberi dall’avidità, rinunciare all’attaccamento a se stessi, seguire la guida di un vero maestro e la pratica dello zazen, in particolare dello shikantaza, o “stare semplicemente seduti”. Inoltre, questa traduzione dello Shobogenzo Zuimonki è corredata da ampie note che contribuiscono a fornire un nuovo modo di avvicinarsi al testo.

Raramente viste in una raccolta così ampia o con un commento, queste poesie offrono una visione unica degli insegnamenti di Dogen e sono una bellissima espressione artistica del Dharma.

Carlo Tortarolo

Recensioni AIkido

Corriere della sera – 7

13 giugno 2025

Il discendente dei samurai: «Spada e meditazione sono la stessa cosa. Ogni mattina recito un giuramento»

di Costanza Rizzacasa D’Orsogna

Il giapponese Hiroshi Tada è l’ultimo discepolo del fondatore dell’aikido, disciplina che educa alla massima padronanza di corpo e mente. «A 94 anni rinnovo l’impegno a vivere da vero uomo».  image

Quante vite può avere una sola persona? Nato a Tokyo nel 1929, discendente di una famiglia di samurai del Tredicesimo secolo dell’isola di Tsushima, prefettura di Nagasaki, nell’estremo sud del Giappone, Hiroshi Tada è forse l’ultimo discepolo vivente, e il più autorevole, di Morihei Ueshiba, leggendario fondatore dell’aikido, arte marziale che punta a raggiungere la massima padronanza e unità di corpo e mente, superando l’aspetto fisico e atletico per diventare un viaggio di crescita personale. Tada, che detiene il grado di 9° Dan di aikido, attualmente il più elevato, è shihan (maestro di maestri) dell’Honbu Dojo di Tokyo e shihan emerito delle Università di Waseda e di Tokyo, e in una lunghissima carriera ha contribuito a diffondere l’aikido in Europa e nel mondo. Lo scorso novembre, in occasione dei sessant’anni dell’associazione Aikikai d’Italia, da lui fondata, è tornato nel nostro Paese per uno stage-evento a Bologna cui hanno partecipato oltre mille persone. Sempre l’anno scorso è uscita in Italia la sua autobiografia, Vivere nell’aikido (CasadeiLibri Editore), un testo ricchissimo di storia e filosofia. In questa intervista, Tada spiega perché l’aikido, che supera il concetto di combattimento, è l’arte della pace. La ricerca di una vita in armonia, con noi stessi e gli altri.

Che cosa comporta essere discendente di una famiglia di samurai? Che insegnamenti le sono stati impartiti da bambino?
«Dal periodo Meiji (1868-1912) fino al 1945, la legge giapponese prevedeva la distinzione in “nobili”, “samurai” e “cittadini comuni”. Nel salone della nostra casa, la nicchia ornamentale (tokonoma) era decorata con un elmo forgiato dal capostipite dei Myochin, importante famiglia di armaioli, e numerosi archi e frecce. Ogni anno, in occasione degli equinozi di primavera e d’autunno, venivano esposti i ritratti degli avi, e dal vicino santuario di Kumano arrivava un sacerdote shintoista a recitare le liturgie per la festa degli antenati. A sei anni venni introdotto da mio padre all’arte del kyudo, il tiro con l’arco giapponese, secondo la scuola tradizionale di famiglia, uno stile molto raro insegnato a Tsushima ai samurai di alto rango che guadagnavano più di 500 koku di riso all’anno (un koku, circa 150 kg di riso, era considerata la quantità sufficiente a nutrire una persona per un anno, ndr). Nel retro della nostra casa c’era un makiwara, il bersaglio. Ho appreso i rudimenti con il mezzo arco nero laccato donatomi da mio padre. Quando andavo alle elementari ho iniziato a fare pratica con la spada. In seguito ho studiato con il fondatore del karate moderno, Gichin Funakoshi. Prima del 1945, nel sistema scolastico giapponese, le arti marziali (budo) erano una disciplina obbligatoria, con relativi esami. Dopo la Guerra, la materia fu sospesa, mentre oggi è di nuovo presente. Quello che ho imparato nell’infanzia da mio padre e da mio nonno è stata la bussola che ha guidato la mia vita».

Cosa l’ha spinta a dedicarsi all’aikido? E che cos’è l’aikido?
«Sono convinto che fosse scritto nel destino fin dalla mia nascita. L’aikido è una Via nata dagli insegnamenti che Morihei Ueshiba, suo fondatore, ricevette da Sokaku Takeda, maestro di daitoryu, antica arte marziale del feudo di Aizu praticata dai samurai di alto rango. Ma è anche il risultato della pratica religiosa di Ueshiba, sublimata dall’espressione “unione spirituale del divino con l’uomo”. Avevo 14 anni quando sentii parlare per la prima volta di Ueshiba, considerato il miglior cultore di arti marziali della nostra epoca. Nel 1950 ne divenni allievo. Oggi personaggi come lui sono rari, ma centinaia di anni fa, i fondatori delle arti marziali giapponesi erano o adepti shintoisti, buddhisti o taoisti, o samurai che oltre a esercitarsi nelle arti marziali si ritiravano in templi e santuari per svolgere pratiche religiose. Un altro dei miei maestri è stato Tenpu Nakamura, fondatore dello yoga giapponese».

Perché chi praticava arti marziali si ritirava nei templi?
«La loro attività era paragonabile ai metodi del raja yoga indiano, la “scienza della concentrazione spirituale”, pratica che punta all’unione della coscienza universale con quella individuale. Nelle arti marziali tradizionali giapponesi, la spada e la meditazione sono considerate la stessa cosa, poiché il potere che si palesa grazie alla pratica meditativa si manifesta allo stesso modo nell’arte della spada. Raggiungendo, spiegavano i filosofi del passato, un modo di vivere assoluto che trascende il mondo della contrapposizione e del confronto».

Anche le donne si dedicavano alle arti marziali?
«Dal periodo Edo (1603-1868), le donne della classe dei samurai praticavano l’arte della spada corta, tecniche a mani nude e simili. Fino alla Seconda guerra mondiale, poi, e durante il periodo Showa (1926-1989), nelle scuole femminili si praticava l’arte del naginata, l’alabarda giapponese. Quando divenni allievo di Ueshiba c’erano già donne che praticavano l’aikido. Essendo una disciplina praticata dai samurai di alto rango, senza combattimenti a terra ma eventualmente tecniche a coppie, dove una persona è inginocchiata sul tatami e l’altra rimane in piedi, l’aikido si addice alla pratica femminile. Quando iniziai a tenere corsi di aikido in varie città italiane, negli anni Sessanta, le donne, da sole o con i mariti, erano già numerose».

C’è stato da subito un grande entusiasmo per l’aikido, nel nostro Paese?
«Sì. Nel dojo del Maestro Ueshiba conobbi la scultrice Haru Onoda. Fu lei a chiedermi se volessi occuparmi dell’aikido in Italia. Arrivai a Roma nel 1964, e iniziai a tenere seminari di aikido per il Ministero degli Interni. Fondai così l’Aikikai d’Italia, e in seguito venni invitato in Svizzera, Francia, Germania, Inghilterra e Spagna».

Quali sono i principi dell’aikido? E cosa possono insegnare le arti marziali a una società ipercompetitiva come la nostra?
«Un insegnamento dell’aikido è quello di vivere in maniera positiva. Questa positività ha due significati, relativo e assoluto. Con lo spirito positivo relativo, nei momenti di sconforto non ci lasciamo andare, e reagiamo impegnandoci, determinati a farcela. Lo spirito positivo assoluto, invece, fa sì che il nostro cuore non cada preda delle emozioni, e rimanga calmo e distaccato. Nelle arti marziali si coltivano la serenità e il distacco, mantenendo il cuore trasparente e l’io individuale e i pensieri negativi assenti. Il Maestro Ueshiba diceva che l’amore è alla base delle arti marziali. Si riferiva all’amore assoluto che permea l’Universo».

Che cos’è l’energia vitale, il ki? E cosa vogliono dire “attaccamento” e “concentrazione”, nell’aikido e nella vita?
«“Ki” è un termine fondamentale nelle culture dell’Asia orientale, simile al prana (forza vitale) dello yoga. È definito come ciò che riempie lo spazio tra cielo e terra, il fondamento dell’universo, ma anche come l’energia alla base della forza propulsiva della vita. Quando ci impegniamo intensamente in qualcosa, il nostro atteggiamento può essere di “attaccamento” o di “concentrazione”. La concentrazione è la condizione in cui il corpo e lo spirito si affinano ma l’animo non si fa catturare da ciò con cui si relaziona. Nell’altro caso, lo spirito è carpito da quell’oggetto, finendo per rimanervi legato: uno stato di immobilità del cuore, e quindi di debolezza. Concentrazione significa riflettere le cose come uno specchio, per questo si rimane liberi. L’attaccamento è l’origine di tutti i problemi».

Nonostante l’età, lei insegna ancora. Qual è il suo segreto?
«Continuare a praticare con cura quanto ho appreso dai miei maestri. Ogni mattina, appena alzato, recito il giuramento quotidiano: “Oggi, senza paura, rabbia, tristezza, con onestà, gentilezza e gioia, con forza, coraggio e convinzione, adempiendo ai compiti della mia vita, senza mai smarrire amore e pace, giuro solennemente di vivere da vero uomo”. Inoltre, pratico tecniche di respirazione, unificazione dello spirito e del corpo, e la sera, prima di dormire, di autosuggestione. Molti dei miei studenti hanno superato gli ottant’anni».

Ci sono atleti in cui si riconosce in discipline che non sono le arti marziali?
«Tetsuharu Kawakami, campione dei Yomiuri Giants di baseball definito “il Dio dei battitori”, diceva di vedere la palla che gli veniva scagliata come fosse ferma in aria, ed era quindi sempre in grado di colpirla. La sua era una condizione mentale di serenità e distacco. Allo stesso modo, il lottatore di sumo Hakuho Sho, commentando una vittoria, spiegava di essersi trovato in una condizione simile a uno stato di meditazione profonda, dove tempo e spazio erano come rallentati e i movimenti dell’avversario perfettamente leggibili».

Nel 1942, poco più che decenne, lei era in Manciuria. Cosa ricorda della Cina di allora?
«Era il decimo anniversario dell’istituzione, da parte dell’impero giapponese, dello Stato del Manciukuò. C’era la guerra, ma era ancora possibile viaggiare. Quelle immense pianure, la serenità della gente. Le scene che vedevo dal finestrino del treno espresso “Asia” in servizio da Xingjing a Dalian erano di un continente maestoso. Provai una grande emozione nel riconoscere i luoghi di cui, da bambino, avevo letto nei libri di letteratura cinese: Il viaggio in Occidente di Wu Cheng’en, le Cronache dei Tre Regni di Chen Shou, i testi di Confucio, di Mencio, di Laozi e di Zhuangzi.»

All’epoca delle bombe su Hiroshima e Nagasaki, aveva 15 anni. Che ricordo ha di quei giorni?
«Nel 1945 vivevo con i miei nonni e mia zia nella casa di famiglia a Tokyo. Ricordo il bombardamento del 10 marzo, che rase al suolo il centro della città e colpì anche la mia scuola, e quello del 28 maggio, che distrusse il mio quartiere. Il 6 agosto giunse la notizia che una potentissima bomba era stata sganciata su Hiroshima. Quella sera mia zia rientrò dal lavoro: “È un’atomica”, disse. ”Così finisce la guerra”. Qualche giorno dopo, il 15 agosto, ascoltai alla radio la voce dell’imperatore. Colsi la frase “sopportando l’insopportabile, tollerando l’intollerabile, desidero che si realizzi la pace per tutto il mondo”. Pensai che il mio Paese aveva rischiato di scomparire. È terribile che ottant’anni dopo la storia sembri avviata a ripetersi. L’azione del “ki” può essere positiva o negativa. Costruire richiede tempo, per distruggere basta un istante. Credo che la nostra civiltà si trovi a un bivio. Spero che gli uomini superino un approccio di competizione, così che il genere umano possa ulteriormente progredire».
(traduzione di Paolo Calvetti)

Repubblica – il venerdi

3 maggio 2024

Hiroshi Tada è uno dei più autorevoli discepoli del maestro Ueshiba Morihei, a sua volta grande maestro di arti marziali e fondatore dell’aikido, disciplina che mira a raggiungere la massima padronanza e unità di corpo e mente. Nato nel 1929 a Tokyo in una famiglia di samurai, Tada racconta oggi la sua vita avventurosa e profondamente spirituale in un’appassionante autobiografia che è appena stata tradotta e pubblicata in Italia da CasadeiLibri, piccola e ottima casa editrice specializzata in saggistica e letteratura orientali. (t.l.p.)

Corriere della sera – La Lettura 17

Inchiostro di Cina

di Marco Del Corona

Color rosso Manciuria

«Viaggiava a quasi cento chilometri all’ora» il treno per Dalian nella Manciuria del 1942, ampia porzione della Cina occupata dai giapponesi. Ricorda Hiroshi Tada (Tokyo,1929), maestro d’aikido dal ’64 attivo in Italia, che «il paesaggio visto dall’Asia Express era un vero “tramonto rosso manciuriano”».

II memoir s’intitola appunto Vivere nell’aikido

(traduzione di Koji Watanabe, revisione di Lorenzo Casadei,

ROCKERILLA 526

GIUGNO 2024 · 01/06/2024

Hiroshi Tada, classe ’29, discepolo del Maestro Ueshiba Morihei, è il fondatore dell’Aikikai d’Italia, Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese. La sua autobiografia, presentata da CasadeiLibri in un’edizione curata e ricca di illustrazioni, è un romanzo di formazione di un altro mondo, che rivela come crescita personale e scoperta del sé possano essere conquistate attraverso l’unità di corpo e mente. Per appassionati e curiosi dotati di almeno un’infarinatura in materia.

Alessandro Hellmann

Sans Fiction

Il rischio di apprendere un’arte marziale leggendo i libri: “Quale che sia la tecnica o la scuola, seguire un Maestro eccelso, non distrarsi e dedicare tutto se stessi alla pratica. Questa è la via corretta per migliorare. II) Nei testi, spesso, vengono riportati concetti che riguardano il vertice della Via. Lasciarsi distrarre da concetti che stanno troppo in alto viene detto “Essere influenzati negativamente dai segreti”. Si dice kyakkashōko e con ciò si intende che bisogna sempre tenere presente a che punto si è nella pratica e “mantenere i piedi per terra”.

La differenza tra bene e male: “Un’altra volta, a un uomo che affermava di non saper distinguere il Bene dal Male, l’Anziano disse: – La verità è che ciò non è possibile. Una cosa del genere in realtà non esiste. Siccome la persona pareva non essere d’accordo, l’Anziano aggiunse – La bellezza e la bruttezza, l’alto e il basso, il sopra e il sotto, il bene e il male, sono tutti la stessa cosa e sono l’aspetto di una manifestazione. C’è però anche l’aspetto delle cose non manifestate. Il “mezzo” del Giusto mezzo, il “Nirvana” del Buddha, la “Alta pianura celeste” dello shintō e, come ci dice la frase “La mia Via è percorsa da un unico principio” di Confucio, si tratta della vera natura del luogo in cui dimora l’Uno. Lì non vi è Bene e Male, vi regna l’assoluta uguaglianza ed equità, viene detto Vuoto, Nulla, Ingresso nel Nirvana, Origine. Il praticante avanzato deve entrare almeno una volta in questo territorio. Solo dopo aver raggiunto questo luogo può sgorgare, come da una sorgente, la capacità di cogliere il Discrimine, altrimenti non è possibile comprendere la vera natura del Bene e del Male”.

È in libreria Aikido ni ikiru. Vivere nell’aikido di Tada Hiroshi (CasadeiLibri 2024, pp. 400, € 25,00, con traduzione di Koji Watanabe).

Tada Hiroshi nato a Tokyo il 14 dicembre 1929 è un artista di primissimo piano del panorama marziale giapponese e mondiale. Discendente di una famiglia di samurai dell’isola di Tsushima, è 9º dan di aikidō, shihan dell’Aikidō Honbu Dōjō; shihan emerito dell’Aikidōkai della Waseda University e della University of Tōkyō; Presidente dell’Aikidō Tadajuku e Direttore didattico emerito dell’Aikikai d’Italia. Nel 2019, dopo 55 anni di attività in Italia, il Presidente della Repubblica Italiana gli ha conferito il titolo di Cavaliere dell’Ordine della Stella d’Italia. In Francia è stato recentemente pubblicato il suo libro L’énergie du souffle – Ki No Renma, Hachette, 2023.

L’autore ha seguito i principi insegnati da Ueshiba Morihei, il fondatore dell’Aikido, un percorso volto a raggiungere l’armonia tra corpo e mente, sviluppando l’energia vitale. Nel corso degli anni, ha incontrato diversi maestri, tra cui Nakamura Tenpū, promotore dell’unione mente-corpo. La sua dedizione ha contribuito notevolmente alla diffusione dell’Aikido a livello globale, con la creazione di dojo e organizzazioni nazionali come l’Aikikai Italia.

Pur riconoscendo i propri limiti, ha deciso di condividere la sua storia per onorare i predecessori e guidare le future generazioni nell’arte dell’Aikido. Questa autobiografia non è solo un’esplorazione dell’arte marziale, ma anche un viaggio interiore alla ricerca di sé e della propria eredità, offrendo un’esperienza che va oltre l’allenamento fisico, trasformando la pratica dell’Aikido in un cammino di crescita personale.

Un viaggio spirituale che ci porta a scoprire la natura umana attraverso i tanti modi di apprendere e l’umiltà necessaria per farlo bene.

Carlo Tortarolo

Il Maestro Ueshiba Morihei

Un giorno, dopo l’allenamento del mattino, lasciai il Dōjō Ueshiba e giunto sul grande viale di Nukebenten vidi una coppia, l’uno vestito con abiti
tradizionali e l’altro in divisa da studente. Presumibilmente erano scesi dal tram appena passato. In quel momento il signor Kikuchi Tokio mi disse: “È tornato Ō Sensei. Tada, vieni con me.” e cominciò a correre. Al che anch’io mi misi a correre dietro di lui.

Il signor Kikuchi, dopo il saluto di buon rientro, mi presentò al Maestro: “Maestro, lui è il signor Tada, un nuovo iscritto.” Lo salutai e quando alzai il capo, il Maestro mi fissò intensamente, poi tolse il cappello e, con un inchino straordinariamente educato verso di me che ero in divisa scolastica, disse: “Sono Ueshiba”. In quel momento, alla presenza del Maestro, di cui da tempo avevo sentito parlare come di un grande esperto, provai una particolare emozione mai sperimentata prima di allora. Fu una strana sensazione, come se un desiderio covato da tanto tempo, ma a cui ancora non ero riuscito a dare una forma precisa, mi si fosse palesato davanti agli occhi.

In altezza il Maestro arrivava appena sopra il mio petto. Aveva un viso dai tratti scolpiti, zigomi alti e un grande naso. I suoi grandi occhi limpidi avevano un colore particolare, sembravano viola, o di un blu profondo. Un lungo pizzetto bianco scendeva davanti fino al petto.

Guardandolo da vicino ebbi la sensazione di averlo già visto da qualche parte. Mi venne subito in mente il grande volto del drago dipinto sul kakejiku appeso sopra il kamiza del tokonoma nel Dōjō Ueshiba in cui ero stato fino a poco fa. Lo seppi più tardi, ma quel volto di drago era stato dipinto da un famoso pittore che appena vide il Maestro Ueshiba fu preso dalla commozione e realizzò il dipinto seduta stante. Lo studente con lui era il signor Kamizono della facoltà di Scienze e Ingegneria dell’Università Waseda. Li seguimmo fino a che non imboccarono il viottolo che dal grande viale portava alla casa degli Ueshiba.

La pratica con il Maestro Ueshiba Morihei

La pratica del mattino del giorno dopo con il Maestro Ueshiba Morihei iniziò con una devota invocazione rivolta alle divinità. Il tono di voce alto, ma straordinariamente limpido del Maestro si diffuse in tutto il dōjō, avvolgendo con la sua vibrazione tutti coloro che erano posizionati in fila.

Dopo il torifune e il furutama, il Maestro, tirandosi su le lunghe maniche del vestito, si avvicinò agli allievi porgendo loro la mano con un gesto naturale. Gli allievi, come attirati da una calamita, si alzavano ad afferrare il braccio del Maestro, ma un istante dopo erano già a terra. Dopo averli proiettati uno dopo l’altro si avvicinò a me e mi porse ugualmente la mano come per invitarmi. Mi alzai e afferrai con tutte le mie forze il braccio del Maestro, ma immediatamente dopo stavo già rotolando a terra. Durante tutto il tempo il Maestro non pronunciò una parola.

La pratica con il Maestro iniziava sempre in questo modo. Successivamente, a coppie, ripetevamo, cercando di riprodurre il più fedelmente possibile il movimento del Maestro e la sensazione provata.

Dopo un po’ il Maestro disse: “Vi prego di ascoltare le mie parole”. Mi guardai in giro sorpreso per vedere se fosse arrivata una persona speciale, ma nel dōjō eravamo solo noi studenti, il signor Kikuchi Ban, iscrittosi recentemente, e altri giovani praticanti.

Il Maestro parlava sempre così, in modo estremamente educato. Prima della guerra, nel Dōjō Ueshiba venivano a praticare persone che rappresentavano il Paese tra le quali alcuni membri della famiglia imperiale, nobili, generali dell’esercito, ammiragli della marina e uomini politici. Ma non era solo questo.

La parola è Forza. Il linguaggio educato, la cura attenta nell’insegnamento, erano alla base della grande dignità del Maestro e ciò si rifletteva direttamente nelle sue abilità marziali.

All’epoca aveva 66 anni, ma i suoi movimenti apparivano più vitali e vigorosi di quelli di qualunque giovane. Quando si praticava con il Maestro tutto il dōjō era avvolto da un’atmosfera particolare. Era come se l’intera sala e tutte le persone presenti cominciassero a respirare insieme, all’unisono con l’attività del Maestro. Il giorno in cui partecipai alla pratica percepii che il Maestro Ueshiba era giunto a uno stadio molto avanzato. Potrà sembrare un’espressione strana e poco rispettosa nei confronti del Maestro, ma è da intendersi nel seguente modo.

Nei racconti che in passato circolavano tra i compagni dell’università Waseda si diceva che il Maestro Ueshiba fosse un artista marziale che usava tecniche che potevano essere applicate in un combattimento reale derivanti dal jūjutsu antico, del tutto diverse dalle arti marziali moderne, e che possedesse anche delle misteriose capacità. Era come se un grande esperto del Giappone antico, che la sensibilità moderna non era più in grado di comprendere, fosse apparso nel mondo contemporaneo.

La Riconocenza

La Riconoscenza

Fernando Marchiori

La riconoscenza

 

Un anziano professore di storia ‘imbatte in una pergamena medievale della quale cerca di ricostruire la singolare vicenda:

trafugata nel corso della Prima guerra mondiale da un castello sulle colline trevigiane, è finita nelle campagne boeme dentro lo scarpone di un soldato in fuga. Ma mentre ricompone l’epopea misconosciuta della Legione Cecoslovacca in Italia, il professore tradisce i segni della demenza senile. Vuole disperatamente raccontare questa storia, ma la sua memoria sdrucciola sul territorio dell’invenzione. Il romanzo storico diventa così la storia di un romanzo impossibile. A meno che qualcuno non provi a riannodarne i fili per un’altra trama.

«Un romanzo come se ne leggono pochissimi oggi. La scrittu-la è raffinata, vivida, smagliante: sa come gettarci nel mezzo di un campo di battaglia di un secolo fa o nella casa di un vecchio infermo di oggi, facendoci provare quasi fisicamente le sensazioni più intollerabili e le premure più delicate. Quel che lascia il segno è soprattutto il passaggio di testimone fra i protagonisti, padre e figlio: il dovere (che può diventare anche una forma di felicità) di raccontare, sempre, non solo la nostra storia, ma anche quella di chi ci ha preceduti e che, impastandoci in quella stessa storia, ci ha resi ciò che siamo..»

Tiziano Scarpa

 

Neve su foglie vermiglie

Neve su foglie vermiglie

di Dōgen Zenji

 

Poesie scelte del maestro zen Dōgen commentate da Shohaku Okumura

calligrafie di Norio Nagayama

Traduzione di Michel Gauvain e Lorenzo Casadei

Il candore della neve rappresenta l’unicità (l’unità) mentre i colori vivaci delle foglie la molteplicità. Ogni albero ha la sua natura unica, per forma e altezza, con i suoi fiori e frutti ed i colori delle sue foglie. Unità e molteplicità convivono. Come possiamo esprimere questa compenetrazione delle realtà assoluta con la realtà convenzionale. Questo è uno dei punti essenziali dello studio e della pratica del Dharma. Come esprimere l’unità di tutte le cose nella miriade di fenomeni che incontriamo? E questa è la ragione per prendere l’espressione a titolo della raccolta.

Recensioni

Vivere nell’Aikido

AIKIDŌ NI IKIRU, Vivere nell’aikidō di HIROSHI TADA

L’autobiografia del più grande maestro vivente di Aikido. Fondatore dell’Aikikai d’Italia con centinaia di allievi e allievi di allievi in tutta Europa e nel Mondo.

“Sono nato nel 4° anno Shōwa (1929). Dalla serenità degli inizi del periodo Shōwa, ho attraversato il suo periodo turbolento caratterizzato dal conflitto bellico. Diventato maggiorenne, come attirato da un filo invisibile, incontrai gli insegnanti che sarebbero diventati i miei Maestri di tutta la vita. Erano il Maestro Funakoshi Gichin del Karatedō, il Maestro Ueshiba Morihei, fondatore dell’Aikidō, il Maestro Ueshiba Kisshōmaru, il Maestro Nakamura Tenpū del metodo di unificazione di corpo e mente (Shinshintōitsuhō) e il Maestro Hino Masakazu e sua moglie del dojo Ichikūkai, eredi degli insegnamenti del Maestro Yamaoka Tesshū. Tra i preziosi insegnamenti di questi Maestri, ci sono anche quelli attraverso il contatto diretto, difficili da ricevere al giorno d’oggi. Ho ricevuto inoltre un grande supporto da amici e membri dell’Aikikai dell’epoca nel diffondere l’Aikido in Giappone e in Europa, e nel fondare dojo e Aikikai nazionali.Molte di queste persone non sono più tra noi. Per ripagare i loro sforzi e nella speranza di essere di qualche aiuto ai giovani artefici e responsabili di ciò che verrà, ho deciso di scrivere queste pagine, consapevole della mia inesperienza e inadeguatezza”

Recensioni

Shohaku Okumura

Shohaku Okumura, nato a Osaka nel 1948, dopo la laurea in Studi buddhisti ha preso l’ordinazione monastica al monastero Antaiji di Kyoto, divenendo discepolo di Kosho Uchiyama roshi che, cinque anni dopo, l’ha nominato suo successore nel Dharma nel lignaggio di Kodo Sawaki roshi. Dal 1995 al 2010 è stato direttore del Soto Zen Buddhism International Center di San Francisco, e attualmente vive e insegna a Bloomington, Indiana, dove ha fondato la San-shin Zen Community. A lui si deve la traduzione dal giapponese di molti testi fondamentali della tradizione zen soto e del suo maestro Kòshò

Tra le sue molteplici opere in italiano sono stati pubblicti: Il Canto dello Zen, Il senso vivente di otto fondamentali testi zen, il Genjokoan e Kodo Il Senza Dimora, editi da Ubaldini.