Recensione Kathmandu. Lezioni di tenebre

Dal sito “Centro studi Darsana ” del 28/5/2013

Kathmandu. Lezioni di tenebre: un libro e della musica dedicata ad una metropoli dell’abisso

Esistono luoghi che si predispongono per loro natura a essere narrati, a essere descritti secondo un ordine possibile, in cui gli elementi che compongono questo stesso spazio si lasciano afferrare, osservare e disporre secondo una mappa percepibile e comprensibile.
Questo accade a spazi naturali, a territori decifrabili, a città, a metropoli. Quando però questo luogo ha il nome di Kathmandu, allora questa possibilità sembra improvvisamente vanificarsi. E questo perché Kathmandu, la metropoli himalayana capitale del Nepal, non è una semplice città. È una stratificazione densa, uno specchio rotto costituito da frammenti irregolari quanto taglienti, appartenenti a epoche e retaggi differenti tra loro e spesso incapaci di combaciare e dialogare.
Nel nostro contemporaneo mondo occidentale, Kathmandu, per decenni, è stata ben più che una remota metropoli himalayana. È stata piuttosto una meta, un miraggio, una possibile linea di fuga costantemente collocata tra tangibilità e pura surrealtà. La quintessenza dell’immaginario di una generazione che proiettava nell’Oriente distante una dimensione di evasione vagamente plausibile, di fuga e di reinnesto, un’alternativa rispetto al ciancicato involucro culturale europeo e nordamericano. Una vera Shangri – La. Un sogno posatosi come per miracolo su uno splendido altopiano himalayano intarsiato di fiumi e di vegetazione lussureggiante, incastonato dalle scintillanti vette himalayane. Il miracolo splendido, quanto effimero, della brina primaverile

Questa la Kathmandu degli Figli dei Fiori e quella in parte di Cat Stevens celebrata con le parole della sua famosa canzone: … Katmandu, I’ll soon be seeing you and your strange – bewildering time will hold me down.. . Una città che è dunque, prima di ogni altra cosa, una meta interiore e che, come una pentola forata, partendo dagli anni ’70, è passata di mano in mano, di generazioni in generazione, diventando un oggetto disorientato e affievolito. Un riverbero allucinato, un caleidoscopio acido vissuto sul filo di una percezione in caduta libera verso il senza fondo.
Nel suo essere metropoli questa distante realtà himalayana non è mai stata tuttavia soltanto uno spazio reale. Crogiolo di culture e cerniera invisibile tra la civiltà sino-tibetana e quello indo-nepalese, le sue origini hanno connotati divini. Sorta ai piedi della sacra collina dimora di Swayambhunath, il forte e sfolgorante dio autogeneratosi, Kathmandu è declamata nell’antichità come il luogo dove “gli dèi sono più numerosi degli uomini e i templi più copiosi delle abitazioni”. Città sacra dedicata alla dèa Durga, Kathmandu viene edificata secondo un piano urbanistico simbolico che riproduce il disegno di una enorme spada, l’emblema stesso della potente dèa indù. Culla della ricchissima civiltà Newar, Kathmandu diventa nei secoli un potente centro gravitazionale e di scambio ove culture si incontrano dialogando per dar forma a splendide espressioni e sintesi nel campo artistico, spirituale, filosofico e letterario. La spiritualità tantrica, naturalmente predisposta alla sperimentazione estrema e al trascendimento della norma formale, trova in questa stessa realtà il luogo più congeniale per nidificare e sbocciare. A coronamento di tutto ciò un monarca intriso di fasti e connotati sacri. Un re venerato come un avatar terreno del dio hindu Vishnu, il regolatore dell’universo. Al suo fianco una regina anch’essa divina, incarnazione terrestre di Lakshmi, la potente dea della fortuna e dell’abbondanza.

Come un universo sigillatosi per scelta entro un proprio lento, lentissimo corso storico, Kathmandu apre le porte agli europei e all’occidente solo all’inizio degli anni ’50. Quello che, all’epoca, era soltanto un foro da cui guardare il mondo di fuori, si trasforma nei decenni a seguire in una falla. La falla si fa largo e l’occidente dilaga. Il turismo stesso inonda Kathmandu invadendo gli stretti e umidi vicoli della città, serpeggiando tra le sue stesse pagode.
A partire dalla metà degli anni ‘80 la città si trasforma rapidamente. La popolazione aumenta, i bisogni crescono. Kathmandu si espande, assorbe nuovi flussi di popolazione diventando una vera metropoli, con tutti i disagi e i contrasti tipici di una megalopoli dell’Asia meridionale. Il vecchio, il mondo tradizionale comincia lentamente a recedere, a implodere, a farsi sempre più invisibile. L’antico si perde nel nuovo, nel cemento malamente armato che sale verticale verso l’alto in una spinta che rimane tuttavia quasi sempre incompiuta.Con la fine degli anni ’80 i primi venti di democrazia cominciano ad avvertirsi nell’aria. Kathmandu diventa allora il teatro dei primi sanguinosi scontri civili tra popolo ed esercito. Il monarca, nonostante la presenza di un parlamento che ne limita le prerogative, ha il polso forte e non vacilla. Non trascorrono molti anni ed ecco che in Nepal, la lotta popolare prende la forma della guerriglia maoista. È l’epoca dello scempio durante il quale, un numero incalcolabile di gente di campagna, terrorizzata dalle terribili violenze perpetuate dalle sedicenti milizie maoiste, si riversa nella Valle di Kathmandu cercando di insediarsi e trovare migliori condizioni di vita. Come già in passato, Kathmandu assorbe. Assorbe sino a gonfiarsi. Sino a crepare. Alla fine, esausta, la città ha un cedimento: quella che si vede dal finestrino di un aereo all’inizio del 2000 non è più una città: è un immenso quanto denso accartocciamento di abitazioni in cui, di tanto in tanto, è dato di notare qualche misero campo verde strozzato dall’avanzata della carne umana e dalla pressione smisurata del cemento.L’aprile 2006 è l’anno della grande guerra civile. Morti su morti. Davanti agli occhi dei rari e sparuti occidentali che, come me, in quei giorni stavano lì a lavorare per dare testimonianza al mondo di fuori come fotografi e reporter, si para lo spettacolo di un mondo autenticamente allo sbando, addentato dalla violenza cieca. Passa qualche mese e il popolo, in apparenza soltanto, sembra vincere. Il re, nonostante le infinite reticenze tipiche del caso, è scardinato dal suo secolare trono e tirato giù. È la democrazia. Non proprio la democrazia: la democrazia Nepali style .In poco la città che, ormai sembra essersi messa in moto irrefrenabile verso la contemporaneità, diventa una bestia ansiosa e affamata. Il desiderio frustrato di lambire un occidente tenuto a bada per tanto tempo si trasforma in un grande ululato che si spande nell’aria invadendo le orecchie di chiunque, grandi e piccoli. I vecchi, quelli che restano, si fanno da parte scuotendo la testa. La grande marcia è partita. Nessuno vuole più stare fuori. E Kathmandu avanza: è la metropoli di oggi ancora bestia, ancora ululante fra i rottami di sé e le spoglie del proprio glorioso passato.A questa città dove ho vissuto e che conosco da ormai quasi venticinque anni, ho da poco dedicato un libro. Si tratta di un’opera letteraria fatta di frammenti di diario, di poesie, di pensieri, di allucinazioni e di molte immagini fotografiche in bianco e nero raccolte come precipitato autentico del mio star lungo lì. Del mio lungo, quanto ininterrotto e mai definitivo, dialogo con quel luogo.

Non unicamente un libro. Direi piuttosto di una catabasi, fatta di parole e immagini poste sull’orlo di un precipizio, capace di condurre nei meandri di questo remoto luogo, che è simultaneamente spazio reale e inviolato recesso dell’anima. Non solo un territorio abitato dunque, non solo storie strappate a un universo in feroce trasformazione. Soprattutto un’insieme di atmosfere che narrano di una città in pelle viva e di come questo stesso universo urlante possa talvolta riservare barlumi di autentica luce e di indicibile bellezza.Il volume Kathmandu, alle parole e alle immagini aggiunge anche dei suoni. O meglio della musica. Ecco quindi che l’opera è integrata da un CD musicale ispirato ai testi presenti nel libro e creato grazie alle composizioni musicali di Roberto Passuti con cui da anni abbiamo creato una specifica formazione musicale, Stenopeica, e un’omonima etichetta indipendente. Con Roberto Passuti condivido la passione di dar vita a oggetti sonori sperimentali, attingendo al ricco archivio di musiche e suoni che ho messo assieme negli ultimi quindici anni e arricchendolo di sonorità melodiche ed elettroniche. I brani musicali sono stati interpretati artisticamente dalle potenti voci di Franco Battiato, Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti, artisti che da anni collaborano alle nostre produzioni musicali e audiovisive offendo il loro prezioso contributo vocale e sonoro e sposando la nostra idea di trasportare artisticamente affilate testimonianze di realtà da luoghi tra loro remoti.
Questa l’opera: un tributo fatto di molteplici linguaggi offerto a una città che splende di una luce satura, sospesa e obliqua. Quelle che, di solito, annuncia un’eclissi.

Kathmandu, Lezioni di Tenebre

kathmanduMartino Nicoletti

“Cose che c’erano e altre che avrebbero dovuto esserci. Questa città, la Kathmandu di polvere, fango e legno, issato e poi portato via, matura al tramonto. Persone evaporano di nuovo in respiri e l’intera piatta valle torna ad adagiarsi sulle sue colonne di vertebre”.

Un’opera poetica dedicata all’abissale metropoli himalayana di Kathmandu.

Una visionaria catabasi, fatta di parole e immagini, capace di condurre nei meandri di questo remoto luogo, simultaneamente spazio reale e inviolato recesso dell’anima.
Musa ispiratrice dell’opera è la divinità indù Chinnamasta, emanazione della feroce Durga.
Una giovane dea nuda e auto-decapitata, cifra di una profonda simbologia iniziatica.

Ad integrare il volume un CD musicale, ispirato ai testi contenuti nell’opera, con brani composti da Roberto Passuti e interpretati dalle potenti voci di Franco Battiato, Teresa De Sio e Giovanni Lindo Ferretti.

Recensione

 

Formato: 13,5x21 cm., Pagine: 222 illustrate, ISBN: 88-89466-70-4 Prezzo: € 18,00

La Strada per Mandalay

MandalayAutobiografia di un fumatore d’oppio

Con un breve scritto di George Orwell

Nell’aprile del 1923, Robinson si stabilisce a Mandalay dove diventa assiduo frequentatore delle fumerie della città. Lungo il cammino tortuoso che lo condurrà a rinunciare alla sua vita in Birmania, e alla vita stessa, Robinson si avvicina a varie forme di spiritualità indiana, con un breve interludio in un monastero buddhista, per dimenticare il tormento che lo affligge di fronte all’inutilità e improduttività di un’esistenza votata al nulla. Misticismo, paesaggi colorati e pittoreschi, tradizione e orientalismo, si mescolano nella rievocazione malinconica della vita di un uomo sensibile e dominato da un irrimediabile sentimento di empatia verso popolazioni d’oriente.

Herbert Reginald Robinson nasce a Stoke Newington, a sud di Londra, il 6 luglio del 1896. Allo scoppia della Prima Guerra Mondiale; il giovane Herbert viene trasferito in India, a Quetta, doveè nominato ufficiale dell’esercito britannico nel 91esimo Distretto di Fanteria leggera del Punjab. Presta servizio in Mesopotamia ed è promosso capitano. Nel 1921, venne assegnato al Dipartimento Civile della Birmania. Nell’aprile del 1923, Robinson si stabilisce a Mandalay e, dalla sera in cui incontra Ba Ohn, etereo e carismatico fumatore di oppio, diventa assiduo frequentatore delle fumerie della città, covi sotterranei e retrobottega clandestini in cui si celebra quotidianamente il misterioso rituale asiatico. Lungo il cammino tortuoso che lo condurrà a rinunciare alla sua vita in Birmania, e alla vita stessa, Robinson si avvicina a varie forme di spiritualità indiana, ora religiose ora filosofiche, con un breve interludio in un monastero buddhista, per dimenticare il tormento che lo affligge di fronte all’inutilità e improduttività di un’esistenza votata al nulla, e dimenticare la sofferenza che lo accompagna ormai quotidianamente a causa della sua dipendenza dall’oppio.

Recensioni

Formato: 13,5 x 21cm., Pagine: 208, ISBN: 88-89466-43-8 Prezzo: € 16,00

Recensioni Corpo eretico

Il Messaggero del 7/06/2008

Il corpo eretico, un libro sul fondatore del butoh
di Donatella Bertozzi

Dedicato al butoh e al più misterioso dei suoi padri fondatori, Tatsumi Hijikata, esce in questi giorni presso l’editore CasadeiLibri un testo prezioso, Il corpo eretico, curato da Maria Pia D’Orazi, la nostra maggiore studiosa del fenomeno butoh (già autrice di un volume su Kazuo Ono). Hijikata, scomparso a soli cinquantotto anni nel 1986, fu un danzatore costantemente in rivolta, osceno e provocatore, ispirato da Genet e Artaud, ma anche marito e padre di due figlie che lo ricordano come un genitore presente e affettuoso.
Il testo della D’Orazi, pensato in un primo momento come sintetico libretto di accompagnamento ad un ampio documentario sul butoh da lei girato in Giappone circa dieci anni fa (allegato al volume in formato DVD) è una densa indagine sulla vita, il pensiero e l’opera di Hijikata (la prima di questo spessore in italiano) oltre che una raccolta preziosa di testimonianze – per la prima volta disponibili nella nostra lingua – rese da personalità vicine allo stesso Hijikata e da numerosi artisti del butoh.
Una delle testimonianze più ampie è quella di Akira Kasai, che vi condensa anche gran parte della sua personale e originale filosofia. Una selezionata bibliografia contribuisce a fare del testo un’ottima risorsa per studenti, studiosi e appassionati.

 

Il Riformista del 9/08/2008

Il corpo eretico in Giappone
di Anna Mazzone

Non possiamo non pensare a Nietzche e ad Heidegger, al loro senso di “abitare poeticamente il mondo” mentre scorrono le immagini del dvd di Maria Pia D’Orazi allegato a “Il Corpo eretico”, omaggio alle opere e all’anarchia rivoluzionaria (o forse sarebbe meglio dire ri-evoluzionaria) del grande maestro della danza But, Tatsumi Hijikata, fonte di ispirazione di tutta l’avanguardia del teatro giapponese. “Il Corpo eretico” coniuga insieme parole e immagini documentaristiche che ricostruiscono il progetto artistico di Hijikata e lo attualizzano, in un’epoca che ha fatto del corpo la sua ossessione, nel bene e nel male. Proprio su questi termini, all’alternanza della luce e dell’ombra, sulle viscere oscure della terra sulle quali poggiano saldamente i piedi e sulla punta dlla testa, attraverso la quale siamo collegati direttamente al cielo, gioca l’intera ricerca dell’Ankoku But, la danza delle tenebre della quale Hijikata è stato indiscusso imperatore. La eco delle danze sufi alla quali ci ha assuefatto Gurdjieff si incarnano con lui nella più pura tradizione giapponese e la superano, per narrare in maniera sofferta la condizione del corpo nella società dei consumi e della cultura globale.

Il senso originale della danza But è movimento, inteso come vita, è qualcosa che emerge dal profondo. Una vera e propria ricerca spirituale che si materializza nella carne in movimento e che non ha bisogno di parole, ma vive di gesti, di spostamenti aerobici, di volti che si aprono e si chiudono a seconda di quello che vedono vivono. Per Hijikata, la danza But? “È un cadavere che si alza in piedi con un disperato desiderio di vita”, è la morte che viene sconfitta dalla resurrezione di Cristo che si fa uomo e incarna lo spirito più puro dell’intero universo, mettendo al centro la fisicità, quel corpo martoriato e avvolto dal senso del peccato, opprimente come un sudario, che la nostra società vive essenzialmente come uno strumento inferiore, ma non come Verità. Ecco perché “eretico”, perché è pura eresia quella espressa dalla danza anarchica di Hijikata e dalle movenze che tratteggiano sul palcoscenico un corpo totale, un’anima radicata nella carne, appunto, come un vero e proprio Cristo risorto.
L’esperienza è un fenomeno corporeo e Maria Pia D’Orazi la racconta come una giornalista attenta e come una danzatrice di tutta una vita. Con rigore e poesia, attraverso le pieghe sottili che ci traghettano dalla morte alla vita e viceversa, seguendo il principio dell’alchimia – come in alto così in basso e viceversa sia – ci si muove nel saggio “danzante” arricchito dalle splendide fotografie di Emilio D’Itri e Massimo Finzi, che fissano il movimento nello spazio, liberandolo e dilatandolo nel tempo e, dunque rendendolo profondamente e autenticamente eterno. Le immagini dei corpi nudi danzanti colpiscono gli occhi come icone sacre, davanti alle quali si prova un impulso irrefrenabile a inginocchiarsi, a pregare persino. È questa l’incredibile magia del But? che la D’Orazi riesce sapientemente ad afferrare e a trasmettere anche ai profani agli atei di questa incredibile rappresentazione ed esperienza artistica.

Il Foglio del 31 Maggio 2008

Foglio

 

 

 

Da Blue, marzo 2009

di Antonio Veneziani

Il corpo eretico è un libro sconvolgente. Un documento arturiano di enorme potenza. Crudele fino allo spasimo e dolce più del miele. Parole e foto si inseguono e si scontrano per confondersi poi in un progetto etico e antiepico, un progetto di insurrezione fisica, quello di Tatsumi Hijikata (1928-1986) fondatore e santone della danza buto.
La danza delle tenebre viene così raccontata e stigmatizzata dal suo mentore: «Tutto il potere della morale civilizzata, mano nella mano col sistema d’economia capitalista e le sue istituzioni politiche, si oppone ferocemente all’uso del corpo semplicemente come fine, mezzo e strumento di piacere.
In una società orientata sulla produzione, l’uso del corpo senza scopo, che io chiamo danza buto, è un nemico mortale che deve essere tabù».
Il corpo eretico è un inno alla spiritualità della carne e alla sua santificazione. Un’operazione oscena e violenta, e al tempo stesso pura e mite come lo fu la vita di Hijikata. Il corpo eretico non lascia indifferenti, lo si ama o lo si detesta. Resta comunque un documento con cui fare i conti.

Maria Pia D’Orazi

Maria Pia D’Orazi, giornalista. Una passione per l’avanguardia giapponese, ha collaborato con l’Università di Roma “La Sapienza” e con la Japan Foundation (in Italia e Giappone). Fra i suoi libri: Butō. La nuova danza giapponese (E&A Editori Associati, 1997); Kazuo Ōno (L’Epos, 2001); Scusi ma lei è qualcuno? Ferruccio Di Cori, uno psichiatra a teatro (Bulzoni, 2006). Ha lavorato per il Foglio. Attualmente è nella redazione di Otto e Mezzo (La7).

Il corpo eretico

Corpo ereticoMaria Pia D’Orazi

«Tutto il potere della morale civilizzata, mano nella mano col sistema d’economia capitalista e le sue istituzioni politiche, si oppone ferocemente all’uso del corpo semplicemente come fine, mezzo e strumento di piacere. In una società orientata sulla produzione, l’uso del corpo senza scopo, che io chiamo danza butō, è un nemico mortale che deve essere tabù»
Tatsumi Hijikata (1928-1986)

CON un documentario DVD sull’opera Tatsumi Hijikta

Tatsumi Hijikata, aspirante danzatore, alla fine degli anni Cinquanta lascia la sua casa di campagna nel profondo Nord e arriva a Tokyo. In una città che rinasce dalle ceneri dell’ultima guerra, elabora uno stile nuovo che chiama ankoku butō – danza delle tenebre – e diventa il punto di riferimento di intellettuali, artisti d’avanguardia e giovani in rivolta contro l’autorità. È osceno e violento, nostalgico e inquietante. È un eretico che lancia un allarme duraturo sulla condizione del corpo nella società dei consumi e della cultura globale. Vissuto all’incrocio fra due mondi, Hijikata utilizza i riferimenti culturali dell’Occidente per criticare il Giappone moderno, mentre formula una filosofia del corpo che attinge ai principi della tradizione giapponese e che si afferma a sua volta come un’aperta critica alla civiltà occidentale.

Recensioni

Formato: 17 x 24 cm., Pagine: 160 con foto in b/n e a colori, ISBN: 88-89466-31-5 Prezzo: € 26,00

Beatrice Testini

Beatrice Testini, è nata a Firenze dove si è laureata in Architettura. Lì ha iniziato la sua formazione nello studio Forte Europa 2000 dell’architetto Lorenzo Papi. Da più di dieci anni pratica alcune discipline tradizionali orientali, tra le quali l’aikido e lo shodo. Attualmente vive a Padova e si dedica allo studio e alla composizione dei giardini.

Con Francesco Fonte Basso ha scritto
Il Giardino del Sogno in Il Regno di Giano
Le quattro libertà di un giardino (Maestri di giardino editore)

 

 

Sachimine Masui

Sachimine Masui, nato a Kurayoshi, Giappone. Paesaggista, socio dell’AIAPP, Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio.Ha studiato landscape architecture al Graduate Schoolof Design, University of Pennsylvania, Philadelphia, Usa; storia ed antropologia dell’Asia in rapporto al paesggio presso la Sophia Università degli Studi Roma-Tre. In Italia ha tenuto conferenze e corsi sul giardino/paesaggio giapponese in università e istituti professionali. Attualmente vive in Giappone.

San Sen Sou Moku

mokuIl giardino giapponese nella tradizione e nel mondo contemporaneo

Sachimine MasuiBeatrice Testini

Questo libro esplora in profondità le caratteristiche essenziali dell’arte del giardino giapponese e le sue potenzialità nel mondo contemporaneo. Dalla descrizione del clima e del territorio, racconta l’origine, la storia, i principi, nonché il rapporto con le altre forme d’arte orientale Con un saggio di Giangiorgio Pasqualotto, e traduzioni inedite di testi di Muso Soseki, Kobori Enshu, Ogawa Jihei, Shigemori Mirei, Horiguchi Sutemi, Saito Katsuo e altri ancora.

con scritti di Giangiorgio Pasqualotto sul Suiseki e di Lorenzo Casadei sul gioco del go come metafora dell’arte del giardino e del paesaggio

Recensioni

Formato: 17 x 24 cm., Pagine: 216 con immagini a colori e in bianco e nero, ISBN: 88-89466-19-7 Prezzo: € 30,00