Manimekalai
La ragazza con la ciotola magica

Manimekalai La ragazza con la ciotola magicaAttribuito al Principe Shattan

Capolavoro della letteratura tamil, la lingua principale tra quelle preariane sopravvissute nel sud dell’India, il Manimekhalai racconta, sotto forma di romanzo didattico, le avventure di una danzatrice che si converte al Buddismo. Il Manimekhalai rappresenta un documento unico, deliziosamente fresco e poetico, che illustra appieno le usanze e i piaceri, le sette religiose e le scuole filosofiche di una civiltà raffinata, e pone in questione molti nostri cliché sull’India antica. Per la prima volta tradotto in italiano lo scritto di Shattan inizia dove si interruppe quello del Principe Ilango AdigalLa cavigliera d’oro.

Tradotto e curato da Alain Daniélou
in collaborazione con  T.V. Gopala Iyer



Formato: 13,5x21 cm, Pagine: 224, ISBN: 978-88-89466-86-5 Prezzo: € 16,00

Alain Daniélou

Alain Danielou suona la VinaAlain Daniélou (1907-1994), poliedrico studioso dai natali francesi orientalista e musicologo di prima grandezza. Le sue opere sulla civiltà indiana spaziano dalla cosmologia alla musica, dall’arte alla filosofia e alla storia, dallo yoga all’erotismo.Dopo un’infanzia austera passata in Bretagna, Alain Daniélou frequenta gli ambienti avanguardisti parigini degli anni ‘30. Molto presto, però, l’Europa non riesce più a soddisfare le sue aspirazioni più profonde e inizia la sua lunga avventura intorno al mondo: l’America, l’Africa del pirata Henry de Monfreid, i bassifondi di Pechino, la Persia e l’Afghanistan, che per primo attraversa in macchina, e quindi l’India dove viene accolto da Rabindranath Tagore. Affascinato da questo paese, vi rimarrà per più di vent’anni. Si consacra alla musica tradizionale, studia filosofia, sanscrito e indi negli ambienti più ortodossi della città santa, pratica lo yoga e viene iniziato allo shivaismo. Ma non è che un nuovo inizio.
Daniélou studiò a fondo la musica indiana e fu nominato professore all’Hindu University di Varanasi nel 1949 per poi divenire direttore del College of Indian Music. Fu uno dei primi occidentali a fotografare assieme a Raymond Burnier gli antichi complessi templari dell’India; il loro lavoro fotografico sul tempio di Khajuraho è stato esposto al Metropolitan Museum di New York. Alain Daniélou fondò inoltre l’Istituto Internazionale per gli Studi e la Documentazione di Musica Comparata a Berlino e a Venezia.

Tra gli altri riconoscimenti, ricordiamo: il Premio UNESCO-CIM per la Musica (1981), la Medaglia UNESCO Kathmandu (1987), il Premio Cervo per la musica (1991). Fu inoltre nominato Ufficiale della Legione d’Onore, Ufficiale dell’Ordine nazionale al merito, Commendatore dell’Ordine delle arti e delle lettere (Francia) e Membro dell’Accademia Nazionale di Musica e Danza dell’India.

Di Alain Daniélou per CasadeiLibri

La Via del Labirinto, Ricordi d’Oriente e d’Occidente
Il Tamburo di Shiva
Il giro del mondo nel 1936
La scoperta dei templi
La fantasia degli dei e l’avventura umana
La saggezza assassinata, in Il Regno di Giano
Principe Ilango AdigalLa cavigliera d’oro
Aravana AdigalManimekhalai

 

 

Véronique Brindeau

Véronique Brindeau, già insegnante di storia della musica giapponese all’Institut National des Langues et Civilisations orientales e coordinatrice editoriale alla Cité de la musique.

Ha pubblicato delle traduzioni dei racconti di Ikezawa Natsuki e una raccolta di poesie di Ogawa Shizue. In Italia il suo delizioso Elogio del muschio ha riscosso un piccolo grande  successo di critica e di pubblico.

In preparazione Hanafuda, il gioco dei fiori

Recensioni Elogio del Muschio

Il Sole 24 Ore del 24 aprile 2014
di Gian Carlo Calza

Elogio dei muschi: titolo indovinatissimo. Fa subito venire alla mente quello del suggestivo Elogio della penombra di Junichiro Tanizaki – purtroppo reso in italiano con Libro d’ombra – ma tant’è. Come nel capolavoro del grande scrittore giapponese anche in questo si parla di realtà minime e profondissime. Tenute in nessun conto, se non addirittura spregiate, in Occidente, ma più che apprezzate in Asia e addirittura esaltate in Giappone. Vi si descrivono percorsi capaci di portare là dove la sapienza si ferma e di far riscoprire al cuore e ai sensi luoghi negletti della conoscenza.
In modo evidentemente ispirato a quel libro l’autrice, Véronique Brindeau, si muove col suo volume uscito per i tipi di CasadeiLibri studiosa e docente di musica giapponese a Parigi, sembra voler trasmettere nel libro una sensibilità, una ricerca di ritmo e ascoltazione necessarie per penetrare nel mondo stesso della musica. Con fare delicato e attento si addentra nell’universo dei muschi giapponesi e della loro cultura cogliendone la meraviglia, la ricchezza e la complessità. Sciorina davanti al lettore un universo di decine, centinaia di muschi laddove in Francia, suo paese natale, tre sole specie entrano nel lessico comune.
Attraverso pagine costellate di poesie e miti antichissimi, in cui il muschio è apprezzato e svolge un ruolo spesso centrale, nonché di illustrazioni avvincenti di parchi, giardini, boschi, templi e capanne preziose, questo elegante libretto apre la via a un tipo di conoscenza che è anche antidoto alla fretta, alla grossolanità e all’indifferenza verso le cose piccole, ma fondamentali e rigenerative dell’esistenza.
L’autrice accompagna la sua apologia dei muschi ad altri veicoli culturali che con essi s’intrecciano: bonsai, giardini, cerimonie del tè, templi quasi segreti.
Il Saihonji è un tempio di Kyoto che richiede una procedura particolare per l’ammissione. Oltre la prenotazione con vari giorni d’anticipo è necessario percorrere una strada a piedi per raggiungerlo e solo in gruppo una volta al giorno. È poi richiesto di trascrivere anche se non si conosca il giapponese quindi come si può un certo numero di caratteri di un sutra o discorso del Buddha. Quindi una serie di difficoltà per accedere a quello che è la principale attrazione del luogo sacro, vale a dire il suo celebrato giardino dei muschi.
Oggi nell’era della globalizzazione siamo costantemente sommersi da tsunami di saperi senza fine, e fine a se stessi, su tecniche, modi di pensare, forme estetiche di culture e società innumerevoli alcune anche che incombono più o meno minacciose sulle nostre realtà. E proprio questa massa di informazioni rischia di non creare nessun ponte di vera comunicazione perché il cuore non ha lo spazio, il tempo, di trafilarla con la decantazione, con l’esperienza.
E allora si capisce come queste difficoltà appositamente create abbiano lo scopo di creare tale spazio di attesa, silenzio e ascoltazione per meglio assorbire vivere, senza dover capire l’esperienza dell’incontro.
Ma funziona? Qualcuno si chiederà.
«Marco cominciò il suo lavoro come uno scolaro all’aperto e finì i duecento ideogrammi invaso o per meglio dire invasato di felicità. Felicità della vita, della perfezione di tutto, dal profumo che saliva dal tatami alla morbidezza del pennellino con cui egli tracciava felicemente gli ideogrammi di cui non capiva nulla. (…) anche qui la felicità di Marco era al suo massimo, senza alcuna punta di malinconia, ed egli si identificava sia con gli alberelli di acero percorsi da un venticello quieto e fresco, sia coi vari tappeti muschiosi e perfino con l’ombra e la luce che giocavano attraverso la polvere d’oro e gli aceri sul piccolo stagno dalle flottanti carpe. Qual genere di felicità era? Marco non lo sapeva, ma forse era proprio quella suggerita dalla filosofia Zen».
Ma quel Marco così poco giapponese e così profondamente italiano capace però di immergersi nel diverso da sé grazie alla lentezza del muschio e non solo, è Goffredo Parise che evoca questa e altre simili esperienze d’incontro, e anche scontro, col Giappone nel bellissimo L’eleganza è frigida.

 

ALIAS SUPPLEMENTO DE IL MANIFESTO 23 Dicembre 2013
Fenomenologie dei muschi
di  Andrea Di Salvo
Chinati verso un tempo delle origini, verso il suolo. Verso un basso che accompagna lo sguardo raso le cose, nell’universo d’ombra screziata che in un’onda ininterrotta sopra di esse ammanta un tappeto ovattato di smeraldo. Attratti verso l’infinitamente piccolo, il minuscolo, il modesto, l’apparentemente indistinto. Così, ben al di là delle svariate considerazioni di ordine botanico o paesaggistico ci proietta questa apologia dei muschi, dilatando il suo oggetto a viatico di un necessario cambio di prospettiva, in uno spaesamento che genera nuova attenzione. Così, almeno, per Véronique Brindeau nel suo Elogio dei muschi (traduzione di Lorenzo Casadei, Casadeilibri editore, pp. 110, € 18,00). Dove, per il tramite paradigmatico della pervasiva presenza dei muschi nei giardini e in tante forme espressive della cultura giapponese, l’autrice affettuosamente assume la fascinazione per l’alterità di quella civiltà e in specie per la costitutiva, particolare sensibilità del rapporto che essa intrattiene con la natura. Intima, rispettosa consuetudine qui emblematicamente testimoniata dalla mirabile varietà di nomi comuni riservati da questa lingua – come già alle nuvole, alle pietre da giardino o alle lanterne di pietra – ai muschi. In numero di trecento, stando alla guida tascabile di quelli del Giappone cui l’autrice attinge – e noi parafrasando – le delicate, immaginifiche descrizioni. Dal calligrafico “pennello di Yamato”, al profumato muschio cipresso, dal muschio “la brina che si posa”, al muschio “argento”, color cenere, fino al “muschio lanterna”, a quello detto “sigaro”, a quello “della memoria” … L’elogio percorre l’universo dei muschi evocandone l’impiego così nei giardini come nei paesaggi in miniatura o in quelli in vaso, procedendo per archetipi, oltre ogni declinazione cronologica. Dai sorridenti volti muscosi scolpiti nei giardini del tempio di Hoara, al Saiho-ji, il riscoperto Tempio del muschio di Kyoto, ricco dei suoi 120 tipi, con le composizioni di pietre coperte di muschi dei giardini d’influenza zen, fino al Ryoan-ji dove i muschi si fanno frange, margine, raccordo di vita nell’astrazione tra isole e mari di rocce. Risalendo su per i sentieri muschiati di rugiada che avviano al rito della cerimonia del tè. Fino alle moderne reinvenzioni nelle scacchiere di muschio cedro di Mirei Shigemori nel Tofuku-ji. Un lessico vivente di tessiture che dalle distese delle centinaia di muschi recenti del giardino di Hakone (1954) trascorre negli evanescenti confini di quelli di Komatsu a Koke no Sono, fino ai piccoli spazi dei giardini interni, quelli conclusi dei patii, invisibili dalla strada e senza orizzonti, o si condensa nei muschi-paesaggio, miniature giardino aperte al loro interno – dal vuoto di sabbia, al centro della composizione – verso un infinito senza limiti.
Se c’è una stagione speciale per ammirare i muschi – suggerisce l’autrice – è il mattino d’estate, rischiarato dopo un acquazzone improvviso; prima che la rugiada evapori o magari dopo che un gesto d’ospitalità, l’uchimizu,  ritualmente rianimi muschi e pietre del sentiero del giardino aspergendoli d’acqua, mentre dagli alberi un particolare tipo di luce tremolante, komorebi, cade filtrando figure e trasparenze del cammino, nel mormorio del vento.

 

La mia abitazione country&country Febbraio 2014

Si intitola così questo libro che ci accompagna con grazia verso gli antichi giardini giapponesie la poesia del Sol Levante. Ci si incammina verso uno di quegli spazi verdi che portano “alla casa del té, dove si reca chi vuole affrancarsi dal mondo”. Spazi che, naturalmente, sono tessuti di muschi, il cui regno incantato è tutto da scoprire e capire. Già, perché di muschi se ne parla poco, i giardinieri tendono ad eliminarli, i nomi botanici non sono tantissimi. In Giappone, invece, scrive Véronique Brindeau, “il suono dei loro nomi ne restituisce il colore e il movimento; i nomi disegnano la linea elegante di un cedro, il vapore delle nuvole, la cascata di un salice…” Si ha a che fare con pennelli da calligrafo, serpenti, nuvole di piccoli ombrelli… Insomma, vedere un muschio, dopo la lettura di questo volume, non sarà più come prima! “Immerso nel pensiero/dei ciliegi in fiore/sopra il muschio/stabilisco il mio giaciglio/e sonnecchio a primavera”.

Véronique BrindeauElogio del muschio

 

 

Recensioni La via del Labirinto

Il Sole 24 ore del 6/04/2008
In principio era il piacere
di Giuliano Boccali

Alain Daniélou svelò in Occidente il segreto delle rappresentazioni erotiche dei templi indiani; il «kama», la forza primordiale che lega gli amanti e fa incontrare individuale e universale

Figlio di un ministro anticlericale e di una madre cattolica attivissima, fratello di Jean futuro cardinale e accademico di Francia, ne1 1936 Alain Daniélou (Neuilly-sur-Seine, 4 ottobre 1907 – Lonay, 27 gennaio 1994) ha alle spalle esperienze tanto intense quanto disparate: frequentazioni d’avanguardia, lezioni di danza con Nicolas Legat, il maestro del “volante” Nijinski, viaggi esotici: l’Afghanistan, poi l’Algeria dalla quale il Governatore generale lo espelle per la non celata simpatia verso gli “indigeni”, purtroppo sequestrandogli il diario mai più ritrovato; Calcutta nel 1935 in auto, una Ford spider! Più volte il Bengala, per ascoltare Tagore nella sua università, a Shantiniketan.

Irrequieto e mondano, curioso di Paesi lontani, ma certo anche di quello della propria interiorità, nel 1936 è invitato a Hollywood dal celebre (e per l’ epoca molto bizzarro) dietologo Gayelord Hauser; è il pretesto per un giro del mondo, che Pierre Gaxotte, caporedattore di «Candide», lo incarica di narrare. Quei resoconti con fotografie del suo compagno di viaggio Raymond Burnier e disegni dello stesso Daniélou sono ora pubblicati in italiano da CasadeiLibri con il titolo Il giro del mondo ne1 1936. Con scelta felice, l’editore accoppia a quest’uscita un breve testo, La scoperta dei templi. Arte ed eros dell’India tradizionale, che raccoglie tre saggi per l’epoca (anni Trenta, poi 1947-1949) davvero precorritori. Anche questo volumetto è impreziosito dalle fotografie di Burnier, che furono di fatto le prime a rivelare al mondo le fantasmagoriche figure dell’architettura e della scultura templare del sub Continente.
Rapidi ma non frettolosi, arguti senza mai essere acidi, i diari del viaggio affidano al colpo d’occhio delle visioni e all’immediatezza delle emozioni considerazioni mai banali. Sintetici e a piatto, i disegni ricordano vivacemente quelli di alcuni maestri coevi, fra i quali perfino Matisse.
La maggior parte dei capitoli è dedicata ai Paesi asiatici: il Giappone «proprio come lo hanno descritto i suoi pittori. Gli abeti si contorcono con arte e, in lontananza,il FujiYama galleggia su una piana di lacca»; la Cina a Shanghai, dove la plebe immensa costituisce come «un humus fecondo (dal quale) si innalza la città più moderna del mondo, con i suoi innumerevoli grattacieli, gli alberghi di lusso, i locali notturni, i malavitosi e le sue incalcolabili ricchezze» (scrive, ricordiamo, nel 1936). Eletta è l’India, come si vedrà, dove l’arrivo a Benares provoca una considerazione indimenticabile sulle reazioni di chi «è uno spirito borghese» e dal viaggio non imparerà nulla o di chi invece, sentimentale e dotato di rendite, «si precipita alla Società Teosofica per indossare un saio, prudentemente disinfettato da ogni microbo…».

Caustica questa volta e molto condivisibile, Daniélou il diritto a questa considerazione se lo guadagna intero: smette i panni dell’intellettuale europeo colto e snob, di grande famiglia e di carattere ribelle; per tre lustri riveste a Benares quelli del discepolo, sottoponendosi a un insegnamento tradizionale. Si proibisce per anni di usare altro che la hindi e il sanscrito, si abitua a «vivere e pensare esattamente alla maniera indù», prende lezioni accoccolato ai piedi del maestro, per salutare il quale ci si prostra, a una certa distanza, sul ventre. Oltre alle filosofie, allo yoga, al tantrismo, studia in particolare la musica classica indiana, fino a diventare Direttore aggiunto del Collegio di musica dell’Università di Benares. Dopo il ritorno in Europa, con la missione di mostrare l’induismo nella sua autentica realtà, fonda a Berlino poi a Venezia (1963 e 1970) l’Istituto Internazionale di Studi Musicali Comparati.

Proprio per l’integrazione di esperienze opposte – quella dell’intellettuale europeo e quella interna all’induismo profondamente assorbita in India – i contributi di Alain Daniélou, sovente pionieristici, sembrano talora non poter distinguere le diverse prospettive, quella dello studioso e quella del praticante convinto. Ma è solo l’ombra di un alto pregio, poiché riflettono un processo personale di crescita e di conoscenza genuino, tenace, sempre sorretto dalla capacità di mettersi in discussione, di sperimentare concretamente, di pagare personalmente. Fra i temi numerosi cui Daniélou si è dedicato (mitologia, musica, storia e sociologia dell’India), i volumi da poco pubblicati offrono considerazioni penetranti soprattutto sull’arte e sulle raffigurazioni erotiche templari. Giudicate scandalose appena conosciute in Occidente, come pure da hindu di prima grandezza educati all’occidentale – Gandhi e Nehru fra i primi – queste raffigurazioni evocano per Daniélou il kama , “piacere”, forza primordiale da cui si sprigiona l’intera manifestazione e alla quale ciascun essere irresistibilmente anela ritornare. Simboleggiata e favorita, secondo alcune correnti, dall’atto d’amore, la sua realtà piena è la «condizione ultima nella quale l’individuo e l’Universale cessano di essere separati», condizione dove «colui che abbraccia il Sé non conosce né il dentro né il fuori». Di questa realtà le coppie di amanti di pietra silenziosamente immerse nell’abbraccio sono l’immagine.

Alain Daniélou, «Il giro del mondo nel 1936», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg.156, €30,00;

«La scoperta dei templi. Arte ed eros dell’India tradizionale», CasadeiLibri Editore, Padova, pagg. 48, € 6,00.

Da ricordare il volume autobiografico:

Alain Daniélou, «La Via del Labirinto. Ricordi d’Oriente e d’Occidente»

Carta – n. 15 anno 2005
A spasso nel novecento con Daniélou
di Umberto Zona

“Sono un frondista per natura, tendo sempre a oppormi all’ideologia dominante […], ma non sono un profeta e d’altra parte la mia barba si rifiuta di crescere”.

È quanto Alain Daniélou dice di sé nella sua autobiografia, “La via del Labirinto”, fin qui inedita in Italia e ora pubblicata, in una edizione accurata, dalla neonata CasadeiLibri. Leggendola, vi ritroverete alle prese con un avvincente e coltissimo on the road lungo le rotte del Novecento. Daniélou fu ballerino nella Parigi degli anni ‘trenta, frequentatore delle avanguardie artistiche e letterarie europee e viaggiatore instancabile. Il suo nomadismo riflette il suo straordinario eclettismo. Fu musicista, pittore, scrittore e studioso delle arti e delle filosofie orientali. In particolare dell’induismo, cui si convertirà nel corso del suo soggiorno in India, trascorso prima alla scuola di Tagore e poi come ricercatore all’università di Benares. Eccellente etnomusicologo, si deve a lui una monumentale raccolta, realizzata per l’Unesco, di musiche popolari della tradizione orientale, africana ed extraeuropea. Ma chi si aspetta le memorie di un accademico rimarrà spiazzato dal fiume di avventure e annotazioni personali, politiche e di costume, riportate con un irresistibile sense of humor. Tra una galleria di ritratti politically incorrect di molti tra i protagonisti del secolo scorso, lo inseguirete tra salotti hollywoodiani e postriboli asiatici, storditi da quella gioia di vivere che in Daniélou, tiene insieme il sacro e il profano e pare annunciare la venuta di quel Dionisio vittorioso pronto a “trasformare il mondo in una vacanza”.

 

Marie Claire
I labirinti di un ribelle
di Micaela Zucconi Fonseca

La via del Labirinto

La via del Labirinto libroRicordi d’Oriente e d’Occidente

Alain Daniélou

L’avventurosa autobiografia di Alain Daniélou, da molti giudicata il suo capolavoro.

Dopo un’infanzia austera passata in Bretagna, Alain Daniélou frequenta gli ambienti avanguardisti parigini degli anni ‘30. Molto presto, però, l’Europa non riesce più a soddisfare le sue aspirazioni più profonde e inizia la sua lunga avventura intorno al mondo: l’America, l’Africa del pirata Henry de Monfreid, i bassifondi di Pechino, la Persia e l’Afghanistan, che per primo attraversa in macchina, e quindi l’India dove viene accolto da Rabindranath Tagore. Affascinato da questo paese, vi rimarrà per più di vent’anni. Si consacra alla musica tradizionale, studia filosofia, sanscrito e indi negli ambienti più ortodossi della città santa, pratica lo yoga e viene iniziato allo shivaismo. Ma non è che un nuovo inizio.

Formato: 13,5 x 21 cm, Pagine: 400 con 52 immagini in bianco e nero, ISBN: 9788889466014 Prezzo: € 25,00

Recensioni

Kyōgoku Natsuhiko 京極夏彦

kyogokuKyōgoku Natsuhiko (n. 1963), attivo dalla metà degli anni Novanta e ampiamente premiato e acclamato da pubblico e critica a livello nazionale, nasce a Otaru, una cittadina dello Hokkaidō occidentale situata tra il monte Tengu e la baia di Ishikari. Si occupa di design, ma l’interesse per gli yōkai 妖怪, le creature sovrannaturali del patrimonio folklorico giapponese, lo spinge a tentare nuove vie di espressione. Il debutto letterario avviene nel 1994 con il romanzo Ubume no natsu 姑獲鳥の夏 (L’estate della partoriente fantasma), opera in cui confluiscono le sue varie competenze: il suo passato da designer  affiora nelle accurate copertine che contengono modellini in resina di yōkai da lui stesso realizzati, e le sue ricerche sul mito e folklore traspaiono tra le maglie delle narrazioni sotto forma di citazioni di antichi testi giapponesi e cinesi. La produzione di Kyōgoku, in continua oscillazione tra fantastico e mystery, al momento in cui scriviamo consta di circa cinquanta opere, per la maggior parte voluminosissimi romanzi, caratterizzati dalla spiccata tendenza dell’autore alla serializzazione. I suoi principali progetti editoriali – le serie di romanzi “hyakki yagyō” (Parata notturna di cento demoni), “hyaku monogatari” (Cento racconti) e “edo kaidan” (Storie spettrali di Edo) – sono infatti accomunati da alcuni personaggi, come a esempio il celebre “detective dell’incubo” Chūzenji Akihito, e dai continui riferimenti a superstizioni e pratiche magiche del periodo Edo, da cui Kyōgoku trae costante ispirazione. Nel corso degli anni, tuttavia, decide di estendere i propri orizzonti e sperimentare nuovi generi, intraprendendo così un percorso che lo conduce alla science fiction, il secondo pilastro portante della sua produzione. Per la serie di romanzi chiamata “loups garous” (licantropi), infatti, inaugurata nel 2001 dall’omonimo romanzo, rivolge per la prima volta il proprio sguardo a contesti culturali diversi dal Giappone: è Der Steppenwolf, (Il lupo della steppa, 1927) di Herman Hesse a fornire l’idea di base da sviluppare – l’incomunicabilità e l’isolamento dell’essere umano – ma Kyōgoku la inquadra all’interno di un contesto urbano futuristico ben distante dalle ambientazioni storiche e retrò dei precedenti lavori, una società in cui gran parte delle comunicazioni avvengono tramite monitor portatili e l’unico luogo di aggregazione per gli adolescenti protagonisti dell’opera è costituito dall’edificio scolastico. Naturalmente, a tale background si aggiunge il tocco speciale di Kyōgoku che proietta ombre gotiche sulla scena, realizzando così un thriller psicologico di forte impatto. Già dalla fine degli anni Novanta si dimostra estremamente attivo nell’organizzare mostre e altre iniziative per la diffusione del patrimonio iconografico relativo alle creature sovrannaturali, attività che gli è valsa il titolo di “ambasciatore cultura degli yōkai”, e partecipa al comitato editoriale di Kwai 怪 (Mistero), la rivista trimestrale che costituisce un punto di riferimento indispensabile per gli esperti di yōkaigaku (妖怪学), gli “studi sulle creature sovrannaturali”. L’attività di “ambasciatore” prosegue con lavori corali e curatele di saggi di massima rilevanza in collaborazione con altri esperti del settore, quali l’antropologo Komatsu Kazuhiko (n. 1947) e il critico letterario Higashi Masao (n. 1958): dal 2000 approda anche al piccolo schermo con la serie televisiva Kyōgoku Natsuhiko – Kai 京極夏彦 – 怪 (Kyōgoku Natsuhiko – Mistero), curandone i testi e i dialoghi e, più tardi, nel 2005, produce il film Yōkai Daisensō (La grande guerra degli yōkai), remake dell’omonimo successo cinematografico del 1968 del regista Kuroda Yoshiyuki (n. 1928).

(Scheda di Diego Cucinelli)

Kurahashi Yumiko 倉橋由美子

Kurahashi Yumiko (1935-2005), pseudonimo di Kumadani Yumiko (熊谷由美子), è una scrittrice originaria della prefettura di Kōchi, nell’isola di Shikoku, regione densa di spiritualità. Molte antiche superstizioni legate al folklore locale – in particolar modo quelle relative a pratiche negromantiche – sopravvivono anche ai nostri giorni continuando ad affascinare artisti, appassionati di spiritismo e turisti che si recano sull’isola per visitare i luoghi menzionati in leggende e aneddoti, in particolar modo quelli legati al mondo dello shintō 神道 (lett. “via delle divinità” ). Anche Kurahashi Yumiko non sembra fare eccezione: la sua letteratura è radicata in una dimensione sovrannaturale popolata da figure non del tutto umane, spesso ibridi che comprendono elementi tratti dal mondo animale o di derivazione fantastica o spiriti privi di corporeità che interagiscono in vari modi con il mondo dei vivi. Figlia di un dentista, fin dalle scuole superiori dimostra un grande slancio verso la letteratura, tuttavia seguendo la volontà del padre si iscrive in un istituto di odontoiatria, ma al contempo – all’insaputa della famiglia stessa – segue un corso di Letteratura Francese presso l’Università Meiji di Tokyo, appassionandosi in particolare ad autori quali Camus, Sartre e Kafka. È in questi anni che giunge al debutto letterario: un suo racconto breve, Parutai パルタイ (Partei, 1960) viene inizialmente pubblicato su una rivista dell’ateneo e in seguito sulla prestigiosa Bungakukai 文學界, portando la giovane nel novero dei finalisti del famoso Premio Akutagawa (Akutagawashō), massimo riconoscimento per un lavoro di letteratura pura. Dopo la morte del padre vive un periodo di depressione che la allontana dalla letteratura ma il matrimonio e una esperienza di studio in America riusciranno a farle riprendere coraggio e produrre nuovi lavori. Nel 1987 riceve il premio Izumi Kyōka con Amanonkoku ōkanki アマノン国往還記 (Cronache del viaggio nel paese di Amanon, 1986), un lungo romanzo visionario in cui un predicatore giunge in un’isola abitata da amazzoni che hanno rigettato ogni forma di spiritualità e tenta di rivoluzionarne il sistema. Considerata una delle più alte esponenti della letteratura femminile contemporanea, Kurahashi riesce a fondere raffinatezza, sensualità ed elementi grotteschi in un prodotto letterario che coinvolge il lettore per le sue tinte sovrannaturali, molto spesso ispirate al folklore giapponese e cinese, come nel racconto breve Kubi no tobu onna 首の飛ぶ女 (La donna con la testa volante, 1985), in cui riprende una creatura dell’immaginario popolare la cui testa si stacca dal corpo e, sfruttando le orecchie a mo’ di ali, incontra in piena notte l’amante che il padre le impedisce di frequentare.

(Scheda di Diego Cucinelli)

Kanai Mieko 金井美恵子

Kanai Mieko (n. 1947) nasce a Takasaki nella prefettura di Gunma, luogo dalla natura sterminata e in cui il legame con la tradizione culturale si rivela ancora particolarmente profondo. Fin da bambina prova uno spiccato amore nei confronti dei gatti e, come lei stessa specifica nel saggio Mayoineko azukattemasu 迷い猫あずかってます (Il mio gatto è un trovatello, 1993), la passione è condivisa dagli altri membri della famiglia. Questo lavoro che trova una collocazione particolare nella produzione di Kanai, incentrata prevalentemente su racconti di breve lunghezza e poesie, mette bene in luce l’esperienza con i felini e, più nel dettaglio, il rapporto con Toller (torā, トラー), un randagio intrufolatosi nell’appartamento di Tokyo della scrittrice e che lei ha amorevolmente accolto. Già nella copertina – opera della sorella, la pittrice Kanai Kumiko (n. 1945) – viene sottolineato come il testo rappresenti “un saggio sdolcinato composto da una scrittrice di letteratura pura che adora i gatti” e nei sedici capitoli in cui si suddivide viene dedicato ampio spazio a descrivere minutamente usi e gusti di Toller, il suo atteggiamento snob nei confronti del salmone in scatola di basso costo e i lunghi pisolini davanti alla stufa. Alla morte del gatto rimasto con lei per ben diciassette anni, Kanai decide di non avere altri animali per un po’ e ne spiega alcune ragioni nel saggio Neko no inai seikatsu no yosa ni tsuite 猫のいない生活の良さについて (Sulle cose buone di una vita senza gatti, 2011). Da un lato, una questione di tipo pratico, in quanto la scrittrice sottolinea come sia difficile per un’amante dei viaggi come lei soddisfare la propria passione avendo da accudire un gatto in casa. Dall’altro, invece, una motivazione desueta, che rispecchia il carattere di Kanai, imprevedibile e passionale: nel saggio infatti afferma che dopo la morte del gatto è finalmente tornata a mangiare uno dei suoi cibi preferiti, lo okara, che per lunghi anni aveva evitato in quanto la polpa di soia era uno dei componenti della lettiera di Toller. In realtà, come spesso avviene nelle opere di Kanai, le riflessioni condotte nel corso del testo racchiudono un aspetto più profondo, che va cercato nel legame tra la vita dell’artista e quanto riportato nei vari scritti: il flusso di coscienza e la psiconarrazione che ne caratterizzano la produzione trovano spazio anche all’interno di questo saggio, che molto sembra attingere al mondo degli zuihitsu. Se normalmente i suoi lavori di prosa e poesia si distinguono per l’assenza di marcatori convenzionali (fisici, anagrafici ecc…) e antroponimi, in Mayoineko kattemasu il nome di Toller compare un numero di volte decisamente eccessivo. Tali ripetizioni vengono abilmente articolate dalla penna dell’autrice sfruttando le possibilità offerte dalla lingua giapponese – ovvero variando i grafemi che lo compongono – e hanno la funzione di rendere ancor più palpabile l’immagine del gatto, per distinguerlo dalla soggettività indefinita dei personaggi dei lavori di fiction.

(Scheda di Diego Cucinelli)

Hagiwara Sakutarō 萩原朔太郎

Hagiwara Sakutarō (1886-1942) è originario della prefettura di Gunma, nel centro dell’isola principale dell’arcipelago giapponese. Fin da piccolo di salute cagionevole e animo sensibile, cresce cullato dall’amore di una famiglia benestante e sempre attenta alle sue necessità. Da subito dimostra interesse per l’arte, in particolare per la letteratura e la musica, e una volta al liceo Sakutarō si dedica al tanka (poesia breve), forma poetica che caratterizza i primi dieci anni della sua attività letteraria, ispirato soprattutto dalla vena romantica dei componimenti di Yosano Akiko (1878-1942), artista che reinterpreta la poesia classica di epoca Nara attraverso una sensibilità squisitamente femminile e moderna. Tale percorso, tuttavia, non si prospetta affatto semplice e degli ostacoli iniziano ben presto a presentarsi, a cominciare dal rapporto conflittuale col padre che non apprezza la sua ambizione a divenire un letterato. Il genitore lo vorrebbe a proseguire gli studi universitari, ma Sakutarō se ne allontana per inseguire il proprio sogno. Si sente intrappolato in un mondo di convenzioni da cui anela a liberarsi e il suo desiderio di fuga dalla realtà lo spinge verso la “modernità” proposta dall’Occidente, ai suoi occhi mondo culturale denso di misteri e dimensioni da esplorare. Il debutto letterario avviene nel 1913 sulla rivista Zamboa (Pomelo) diretta da un altro celebre poeta, Kitahara Hakushu (1885-1942), che per Sakutarō diviene una figura di riferimento sia sul piano professionale sia su quello degli affetti personali. Trovando mano a mano consensi nel mondo degli intellettuali, nel 1917 pubblica la prima raccolta di poemi Tsuki in hoeru 月に吠える (Abbaiare alla luna), suscitando clamore nell’ambiente letterario per l’originalità dello stile e delle tematiche affrontate. A seguire questo “primo periodo” se ne inaugura un secondo che si protrae fino alla pubblicazione della raccolta  Aoneko 青猫 (Gatto blu, 1923), in cui si inizia a delineare l’interesse per i felini che connota un consistente numero di produzioni successive. Nel frattempo Sakutarō si sposa e diventa padre di due bambine, ma la stabilità famigliare sembra destinata a durare ben poco: a distanza di alcuni anni dal trasferimento a Tokyo, i coniugi si separano nel 1929. Molto amico di vari nomi illustri del panorama letterario giapponese, quali Akutagawa Ryūnosuke e Murō Saisei, Sakutarō è uno dei poeti del gruppo di Shiki (Le quattro stagioni), una rivista mensile inaugurata nel 1934 e che – senza evidenti legami con alcuna particolare tendenza letteraria – mira a un classicismo indigeno saggiamente temperato da sentimenti e intellettualità tutti moderni, fondendo lo spirito della poesia europea con quello della lirica classica giapponese. Se finora la sua ricerca intellettuale lo ha portato a intrecciare pensiero buddhista e filosofia nietzschiana all’interno di poemi a verso libero, nell’ultimo segmento dell’attività letteraria Sakutarō effettua un percorso di riscoperta della poesia classica giapponese, esperienza che si condensa nell’ultima delle sue principali collezioni, Hyōtō 氷島 (L’isola di ghiaccio, 1934), dove ritorna a una struttura più tradizionale e un contesto realistico.