Recensione de Veias e Vinhos vino e sangue

Da New York review of books

Vino e Sangue, il Brasile dall’interno

L’immagine sin qui raccontata del Brasile dai midia di casa nostra, del Pais do Carnaval e del Futebol, di una società brasiliana che sembrava coniugare disinvoltamente “l’allegra povertà” dei molti con l’enorme ricchezza di pochi, la bellezza della Cidade Maravilhosa con la feroce violenza delle favelas, oggi viene sostituita dagli stessi midia con quella di un Gigante Buono, addirittura lanciato verso “la conquista dell’economia mondiale”. È come se improvvisamente anche questa parte dell’Italia avesse riscoperto il Brasile, un nuovo Brasile. Probabilmente, come dovremmo sapere bene noi italiani, che viaggiamo da sempre con i cliché incollati addosso, la realtà di un paese è spesso distante da narrazioni che, anche se di segno opposto, prestano il fianco a stereotipi, vecchi e nuovi.
In uno scenario così composto interviene un piccolo editore, che con i mezzi limitati della sua piccola impresa, ma con una tenacia e una visione libera dai grandi giochi, com’è tipico di queste realtà, sceglie coraggiosamente di presentare al lettore italiano l’occasione per fare un viaggio diverso e inedito.

 

Da Libero dell’11/6/2011

Miguel Jorge il bello del Brasile oltre Paulo Coelho
di Paolo Bianchi

La letteratura brasiliana non è solo Jorge Amado né (Dio ce ne scampi) Paulo Coelho. Accertatevene dando un’occhiata a Veias e Vinhos, Vino e sangue, di Miguel Jorge (Casadei Libri, pp. 300, euro 16, trad. e cura di Salvatore Solimeno, illustrazioni di Dek). Lo scrittore nato nel 1933 nel Mato Grosso, ma cresciuto nella zona del Progetto Brasilia, pubblicò nel 1981 questo impegnativo romanzo, all’apparenza un noir, ma in realtà una metafora della trasformazione della società brasiliana da nazione del terzo mondo a punta di diamante delle nuove civiltà avanzate, con tutti gli orrori e le contraddizioni inclusi. Interessante la tecnica narrativa, fatta di salti temporali e di cambi repentini di punto di vista (meglio leggere prima la postfazione, per non rimanere perplessi). Il libro è forse il più conosciuto nella sterminata produzione di Jorge, che ha scritto anche lavori teatrali, racconti e sceneggiature. Il personaggio di Altino da Cruz, vittima di un errore giudiziario, resta a lungo nella memoria, soprattutto per gli efficaci monologhi interiori. In più, fa riflettere sul sistema generale della giustizia umana, sulla sua burocratica spietatezza.

Da MondoliberOnline.it

di Alberto Sichel

Veias e Vinhos – Vino e Sangue è un romanzo, è la storia che incrocia vite di adulti e bambini, scritto con la semplicità di un’incessante ricerca e sperimentazione. E’ il Brasile guardato dall’interno e scritto da Miguel Jorge, in un momento importantissimo della storia del Brasile: la costruzione della città di Brasilia (capitale del Brasile del 1960), grazie alla quale è iniziata la corsa che vede oggi il grande Paese sudamericano posizionato al 6° posto fra le potenze più grandi del mondo. E’ un viaggio che l’autore sceglie di fare insieme al suo lettore brasiliano, un percorso dove, oggi, viene invitato anche il lettore italiano, che può così aver la possibilità di ‘vedere’ dal suo interno il Brasile nelle sue più diverse parti. Il Brasile di Miguel Jorge non è quello al quale siamo stati abituati dalle opere di Jorge Amado, dai colori e dai sapori sorprendentemente tropicali, incentrato su Salvador de Bahia. Il Brasile di Jorge è minore, a prima vista meno accattivante, fatto di centri urbani anonimi ed ostili o delle realtà sospese fra la povertà e l’ingiustizia delle campagne e l’incertezza e la violenza dei centri urbani in formazione, così tipiche di uno sconfinato Brasile.

Il romanzo si può definire di genere Noir, infatti, la storia narrata trae origine da un fatto di cronaca veramente accaduto: un’orribile strage di un intera famiglia (si tratta della famiglia Mateucci che nel romanzo diventa la famiglia di Matheus), avvenuta proprio quando e dove si sta per realizzare il sogno brasiliano di effettiva integrazione nel mondo sviluppato, rappresentato dalla costruzione della capitale, allora la più moderna del mondo: Brasilia. L’intuito, la sensibilità, la capacità narrativa, il suo progetto di base, fanno sì che Miguel Jorge riesca a tradurre la cronaca in una metafora. Una metafora che mantiene con la Storia del Brasile un profondo rapporto di significazione. Il periodo coperto dal romanzo va dalla costruzione di Brasilia, quindi dalla fine degli anni ‘50, passa attraverso il colpo di Stato del ’64, la successiva dittatura, poi la cosiddetta ditablanda, fino alla abertura degli anni ’80 . Alvaro Alves de Faria, noto scrittore, poeta e giornalista brasiliano della generazione degli anni 60, ha salutato l’uscita di questo importante romanzo come la migliore opera del 2011. Alves de Faria si è dedicato a diversi generi letterari tra cui la poesia, romanzi, saggi e cronache; ritiene che la lettura di questo novo libro, possa aiutare il lettore ad interpretare uno spaccato sociale che difficilmente è possibile per chi non lo vive in prima persona. Il Maestro brasiliano valuta, inoltre, il romanzo Veias e Vinhos, un vero e proprio reportage che parla del Brasile che nessuno ha il diritto di nascondere. Al lettore non resta che il compito di ricostruire tassello per tassello una delle probabili verità di come il popolo brasiliano abbia vissuto la costruzione pianificata della propria capitale grazie all’ordine dato, dall’allora Presidente Juscelino Kubitschek, che ha posto in atto un articolo della Costituzione repubblicana. Brasilia fu costruita in 41 mesi, dal 1956 al 21 aprile 1960, quando fu ufficialmente inaugurata.

Wilhelm Reich contro gli Stati Uniti d’America

cover reichLa biografia 

È davvero curioso che un uomo considerato possibile candidato al Premio Nobel per la Pace, le cui teorie sul carattere umano sono universalmente riconosciute per il contributo allo sviluppo della psicoanalisi, sia stato arrestato negli Stati Uniti, nel 1957, per oltraggio alla corte.
Il volume biografico di Jerome Greenfield è il miglior testimone della controversia legale conclusasi con l’incarcerazione di Reich, la morte in un penitenziario, la distruzione degli accumulatori e il rogo delle sue opere. L’inverosimile fenomeno del book burning che vide oltre sei tonnellate di libri di Reich gettati nelle fiamme di uno dei roghi più eclatanti del secolo scorso.

Jerome Greenfield, cresciuto a Seattle, fu studente a Parigi e proseguì gli studi a Gerusalemme, dove entrò nei Combattenti per la libertà d’Israele. Divenuto insegnante presso il Dipartimento di anglistica della State University of New York di New Paltz. Ottenne vari riconoscimenti letterari: dalla Yaddo Foundation , dalla Chapelbrook Foundation, dal Writer’s Workshop della Iowa State University. presso cui si laureò, per The Ruins of Spring: a Novel . Insieme a H. Brisman e O. Henry scrisse: Whirligig opera in one act; fu anche autore di un audiolibro dal titolo: Politics, Social Change and Reich. E’ morto nel 2003.

Formato: 15x21 cm., Pagine: 476, ISBN: 9788889466827 Prezzo: € 25,00

Recensioni de L’Anello del Pescatore

Da Avvenire del 24/4/2010

Raspail e l’anello del pescatore anti-Dan Brown 
di Alessandro Zaccuri

L’avrete sentito dire anche voi, senz’altro. E magari l’avete pure pensato: «Il Codice Da Vinci è tutta un’invenzione, non ha nulla di storico. Però è un bel thriller». Non è vero. Il che non significa che la storia della Chiesa non sia materia adatta per un buon romanzo, magari con le dovute dosi di chiaroscuro. Detta la linea Dostoevskij con La leggenda del Grande Inquisitore, testo capitale la cui eco risuona a tratti anche ne L’Anello del Pescatore, il romanzo del francese Jean Raspail che CasadeiLibri propone ora nell’elegante traduzione di Francesco Maria Fonte Basso. Già conosciuto in Italia per libri come I nomadi del mare e Il Campo dei Santi, per­corsi da un’evidente polemica anti­moderna, Raspail appartiene alla schiera dei grandi irregolari tempratisi nelle controversie del Novecento (è nato nel 1925 a Chemillé-sur-Dê­me ed è stato a lungo esploratore e viaggiatore). Non nasconde di preferire la tradizione all’attualità e le sue convinzioni in materia religiosa non fanno eccezione, come dimostra questo romanzo giocato su una continua alternanza temporale tra XIV e XX secolo. Dal punto di vista della costruzione, L’Anello del Pescatore è un libro di robusta tenuta letteraria, in particolare nelle pagine dedicate al misterioso viandante che, nei primi anni Novanta, attraversa la Provenza portando con sé soltanto uno zaino logorato dal tempo. Il vecchio sembra non avere nome, anche se in segreto qualcuno continua a chiamarlo Benedetto. Prega in latino, come si faceva una volta. E forse è capace di compiere miracoli. La sua esistenza non è ignota in Vaticano, dove un drappello di ecclesiastici sta fa­cendo di tutto per rintracciarlo. In seguito a una concatenazione di eventi benissimo ipotizzata da Raspail, infatti, l’anziano vagabondo altri non sarebbe se non il successore di Pedro de Luna, ossia Benedetto XIII, il Papa avignonese che per tutta la vita continuò a rivendicare la legittimità della propria elezione, sfidando i Pontefici di nomina romana. L’Anello del Pescatore sfrutta con grande abilità le contraddizioni di una delle epoche più dolorose nella storia della Chiesa, è preciso nella documentazione (anche se talvolta capzioso nell’interpretazione) e sempre chiaro nell’indicare la prospettiva di un «meraviglioso cristiano» in cui la regalità del Papa suscita una fede disponibile al prodigio. Il colpo di scena, però, sta nel carattere positivo attribuito agli stessi uomini di Curia. Anziché darsi da fare per insabbiare la verità (preoccupazione principale delle stereotipate figurine alla Dan Brown), prelati e monsignori cercano in tutti i modi di portare a compimento il desiderio che nel romanzo viene attribuito a Giovanni Paolo II: chiudere una volta per tutte lo scisma d’Occidente, accogliendo in San Pietro il ramingo Benedetto. O le sue spoglie, almeno.
No, non è una profezia a posteriori. Raspail ha pubblicato L’Anello del Pescatore nel 1995, come atto d’amore verso la Chiesa al di là di ogni umano errore e di ogni stortura storica. Era quello che insegnava Papa Wojtyla, quello che il suo successore – Benedetto, anche lui – continua a ricordare anche in questi giorni di tempesta.

Da L’Alto Adige del 28/5/2010
di Sergio Costa

Capita, di tanto in tanto, di avere tra le mani un libro diverso da tutti quelli che si ha avuto l’occasione di sfogliare, un libro destinato a cambiare il nostro modo di vedere il mondo. E’ questo il caso de L’Anello del Pescatore . L’autore è Jean Raspail, viaggiatore e scrittore francese molto discusso per l’opera che nel 1973 decretò la sua fama, Il Campo dei Santi, e per le sue posizioni politiche (monarchico), moltissimi i suoi romanzi che meriterebbero d’essere conosciuti anche nel nostro Paese. Infatti, sfortunatamente ancora poco tradotto in Italia Raspail è destinato ad entrare nel Pantheon dei grandi della letteratura internazionale. In Francia è già considerato tale e tra i numerosi riconoscimenti nel 2003 ricevette il prestigioso “Grand Prix du Roman dell’Académie française” già assegnato in precedenza a Milan Kundera, e a Margarite Youcenar. Indubbiamente nessuna delle opere di Jean Raspail lascia il lettore indifferente, nel bene e nel male, ma L’anello del Pescatore, romanzo sconvolgente quanto avvincente, ha la forza di mettere in crisi molte delle nostre idee sulla storia, sulla religione, sul mondo ed è davvero singolare, dato il tema trattato (Storia della Chiesa) che nessun editore italiano avesse pensato prima ad un edizione italiana del volume pubblicato in Francia da Albin Michel.
Difficile riassumerne la trama che si snoda nell’arco di settecento anni alternando un presente raccontato al passato ad un passato che torna presente.
La narrazione inizia la vigilia di Natale del 1994 (o forse del 1983), un vecchio vagabondo con uno zaino in spalla è in cammino. Il suo nome è Benedetto. È l’ultimo, è stanco, è solo. I servizi segreti del Vaticano sono sulle sue tracce. Lui si trascina verso Roma, deve incontrare Woityla. Deve rivelargli quello che sa.
L’Anello del Pescatore racconta la storia di questo enigmatico viandante e dei suoi predecessori, uomini perseguitati e che sembrava “non avessero altra funzione sulla terra che quella di durare. Durare e trasmettere, durare per trasmettere.” Dal tempo dell’inizio: lo Scisma d’Occidente che divise l’Europa e prostrò la Chiesa, una storia di tenace resistenza, prima epica con Papa Luna, poi quasi leggendaria con l’antipapa “Robin Hood” Jean Carrier, infine quella dimessa e segreta, tra le montagne della Provenza dei loro tenaci successori. Benedetto è il loro nome che riecheggia dalla fine del Medioevo. Ridando loro voce, Jean Raspail costruisce un libro affascinante, che travalica i generi letterari. Chi, leggendo queste righe, immaginerà che L’anello del Pescatore sia solo una fiction alla Dan Brown, magari un po’ più elegante, resterà spiazzato.

Da Libero del 5/2/2010

I misteri vaticani prima di Dan Brown
di Simone Paglia

“Noi siamo stati perseguitati, una volta, ma per motivi che non avevano nulla a che fare né con la morale né con la legge. Questo accadeva molto tempo fa. Oggi siamo dimenticati.” Chi è il ramingo che pronuncia queste parole, vaga tra la Provenza e Aveyron e risponde al nome di Benedetto? Questua come un pellegrino ma assiste alla santa messa di nascosto, indossando abiti logori e portando uno zaino contenente l’insegna del Santo Padre?
Ne L’anello del pescatore , Appena pubblicato da CasadeiLibri pp. 322, euro 16) Jean Raspail racconta le ultime vicende di “alcuni uomini di fede che si trasmettono una fiaccola, una fiamma fragile e vacillante accesa seicentoquindici anni fa (siamo nel 1994 ndr)”.
Ne esce un romanzo di avventura che si legge di un fiato, ma soprattutto un racconto mistico sull’epilogo dell’Europa.
Il nome di Raspail in Italia non suona familiare. Qualche anno fa il Cavallo alato edizione di Ar ha mandato in stampa il racconto profetico Il Campo dei santi. Al cuore del libro, l’invasione di immigrati che si abbatte sull’Europa con l’avvallo delle sue classi dirigenti, delle associazioni missionarie e caritatevoli. A fronteggiare lo sbarco solo una fronda di resistenti, destinata a subire l’aggressione dell’esercito.
Si capisce bene come Raspail, classe 1925, non cavalchi l’onda del buonismo. Eppure in Francia non è uno sconosciuto. Pubblicato da importanti editori come Albin Micheal, nel 2000 viene candidato all’Accademia francecse per sostituirvi Jean Guitton e tre anni dopo riceve il prestigioso “Grand Prix du Roman dell’Académie française” (assengnato in precedenza a Milan Kundera, Margarite Youcenar, Julien Green, Romain Rolland). Per Micheal Déon, decano delle lettere d’Oltrealpe, la sua opera è “un omaggio a tutti i popoli morti due volte: spazzati via dal fragore della storia e sepolti nella memoria degli uomini”. In un intervista a Le Figaro, Raspail si dice monarchico e viaggiatore, confessa come alla scrittura sia arrivato tardi, “solo dopo aver solcato il mondo dalle Americhe al Congo, da Macao al Giappone”.
Una fiaccola accesa 615 anni fa, si diceva. Tanti sono trascorsi dal Concilio di Costanza, l’atto conclusivo dello Scisma d’Occidente, che prostrava la Chiesa nello scontro tra papi e antipapi, tra Roma e Avignone. Solo con la deposizione dell’ultimo antipapa, Benedetto XIII, la parentesi di questi tempi bui si chiude. Eppure, tra le mura vaticane, nel 1994, e quindi ben prima degli intrighi immaginati da Dan Brown, c’è chi se ne occupa ancora con apprensione.
A ottenebrare la mente degli europei di L’anello del pescatore, non sarà l’immigrazione, come nel Il Campo dei santi, ma la società dei consumi.Per il ramingo Benedetto “Tutto ciò che vedeva intorno a sé lo respingeva, lo cancellava, gli toglieva ogni sensazione di esistere. Trova solamente capannoni e magazzini, parcheggi coperti di vetture che circondavano immensi negozi da cui non spuntava alcun campanile. Ne fu quasi soddisfatto. Come avrebbe potuto farsi sentire il richiamo di una campana in mezzo a questo rumore che non cessava mai? Almeno …si risparmia alla voce di Dio di perdersi nell’indifferenza…”
Eppure il vescovo che si mette preoccupato sulle sue tracce ne riconosce la forza spirituale. “Benedetto assomiglia a una fine che sia stata anticipata. Tutto ciò ha profondamente commosso il Santo Padre. Ai suoi intimi ha detto che verrà un giorno in cui l’insegnamento della Chiesa sarà unanimemente rigettato perché divenuto inapplicabile agli occhi della morale ammessa e della religione del progresso. … un concilio lo imporrà alla luce di una nuova lettura del Vangelo, e che al papa non resterà che abbandonare Roma e scomparire, come Benedetto.” Quale legame unisce il Papa al pellegrino di Provenza, uomini che sembrava “non avessero altra funzione sulla terra che quella di durare. Durare e trasmettere, durare per trasmettere.”
E chi è Benedetto, custode dell’Anello del pescatore?

Lankelot 21/03/2010

Siamo nel 1993. Un viandante si trova a Rodez, zaino in spalle e porta con sé la desolazione negli occhi; attende che la funzione religiosa del Natale si concluda per nascondersi dietro un pilastro. Poco prima era stato quasi assalito da un altro disperato alle porte della cattedrale, facendo appena in tempo ad accorgersi che qualcuno, quasi un’ombra, lo stava spiando e non certamente per caso.
Un salto nel tempo proietta la storia nel 1378: ”una cloaca putrida e immonda, una caverna di briganti, ecco ciò che Roma era diventata. Numerose chiese rovinavano al suolo e mandrie di buoi scheletrici brucavano anche ai piedi degli altari. Antica residenza dei papi, il Laterano era diventato inabitabile, raschiato fino all’osso, smantellato“ (pag.16).
L’immagine di Roma è annientata da lotte cruenti e barbariche. Il rispetto per il suolo cristiano si riaccende solo la domenica, giorno del Signore, per poi ricominciare con assassini, saccheggi e stupri per tutta la settimana.
In quei giorni si attende l’elezione del nuovo successore di Pietro e vescovo di Roma. Eppure dopo 190 papi, da Clemente VI in poi la sede effettiva del papato era ad Avignone. È il momento di Gregorio XI che torna a Roma tra le suppliche delle Sante della Chiesa, Brigida e, soprattutto, Caterina da Siena che si pone a capo della fila; la sua fine è segnata e la sua morte apre una voragine che non si chiuderà più.
“Romano lo volemo o almeno italiano!vogliamo un papa romano, vogliamo un papa italiano!datecelo, Monsignori degli ultramonti, altrimenti scorrerà il sangue” (pag.19), sono le urla che si levano dal popolo inferocito e che si avvicina alle mura.
Cardinali e preposti guardano alla folla con timore ben consapevoli del massacro che ne sarebbe seguito se non avessero dato una pronta e sicura risposta.
Un nome inizia a circolare in conclave, quello di Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari che assume, dopo l’elezione, il nome di Urbano VI. Contrariamente alle previsioni, il primo atto ufficiale del nuovo papa italiano è quello di allontanare tutti coloro che avevano assistito alla sua elezione, tutti coloro che avrebbero potuto un giorno rivendicare un qualche vizio di forma. E così semina il terrore tra i pelati costretti a fuggire ad Anagni.
L’ultimo a lasciare è Pedro de Luna, forte e coraggioso, rigoroso e lindo negli intenti che griderà fino alla morte di essere lui il legittimo successore di Pietro, designato da Gregorio XI.
La Francia, tuttavia, sceglie come primo pontefice Clemente VII che inizia a governare in parallelo al Vaticano. Così la storia apre la strada all’esistenza di due papi o meglio un papa ed un anti-papa.

“L’uomo era restato, solo. La stagione fredda avanzava. Le foglie degli alberi, cadevano già quando l’acqua cominciò a battere silenziosamente le pietre del basamento della cappella. L’acqua affogava il ricordo. Essa inghiottiva la sua stessa vita, perché era là che i suoi compagni lo avevano designato. Lo avevano nominato uno dopo l’altro, al loro turno così come era sempre stato da Fondi, da Avignone, da Peñiscola, in Aragona e in seguito al riparo di questa cappella dove la grazia di Dio era emigrata, fuori dal secolo e fuori dal tempo, lontano dagli uomini che credevano di dominare il tempo mentre esso scorre vanamente tra le mani impotenti” (pag.80).

Jean Raspail, scrittore francese la cui produzione in lingua italiana è come una goccia nel mare, torna sulla scena nostrana con un libro ben strutturato e avvincente che si sforza di mettere luce su uno dei misteri secolari della Chiesa. Tutto si riconduce allo Scisma d’Occidente dove contemporaneamente vennero eletti due pontefici, uno su suolo romano e l’altro Avignonese da cui discenderanno, secondo le sue ricostruzioni, altri trentadue nomi sepolti nella nebbia.
In un gioco di luce e ombre, si muove tra passato e presente, in un flashback alternato, sapientemente miscelato, per restituire una vicenda sconosciuta ai più; parte dagli eventi tumultuosi dell’elezione di Urbano VI restituendo la storia di Pedro de Luna, colui che era stato designato ufficialmente dall’ultimo papa ante scisma come suo successore. Dalla sua vicenda scopre letteralmente le tombe degli invisibili per raccontare una storia parallela che, ovviamente, potrebbe non significare nulla se non si pensasse per un attimo a cosa sarebbe stato se ci fosse stato sul seggio di Pietro un discendente Avignonese, a cominciare dallo stesso Pedro de Luna.
Ecco che sull’intricata vicenda si allunga la mano degli agenti segreti del Vaticano ed il nome di “Benedictus” torna a riecheggiare inascoltato tra le tombe ufficiali dei papi romani.
Con una scrittura ampia e rigogliosa, Raspail porta il lettore a voler ripercorre nuovamente le righe introduttive e a cercare negli occhi dell’uomo di Rodez del 1993, il vivo riflesso dell’Anello del Pescatore.

EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE

Jean Raspail (5 luglio 1925, Chemillé-sur-Dême), esploratore e scrittore francese.
Tra i suoi scritti, in Italia è stato pubblicato “Il campo dei santi” (1973). “L’anello del pescatore” vinse il Premio Prince Pierre de Monaco (1996) e il Premio Maisons de la presse (1996).

Jean Raspail, “L’Anello del Pescatore”, CasadeilLibri, 2009. Traduzione di Francesco Maria Fonte Basso.

Titolo originale: “L’anneau du pecheur”,1995.

L’Anello del Pescatore

anello1Jean Raspail

Traduzione di Francesco Maria Fonte Basso

Chi è questo vecchio prelato vagabondo che, se interrogato sulla sua identità, risponde semplicemente: «Sono Benedetto»? Perché i servizi segreti del Vaticano lanciano sulle sue tracce il loro migliore agente? La Santa Sede si sente forse minacciata? Anno 1993. L’autorità di Roma non è più contestata dai tempi del concilio di Costanza che, nel 1417, depose Benedetto XIII, l’ultimo degli antipapi di Avignone. Le tracce dei suoi successori si sono perse tra la Provenza e Aveyron. Il Grande Scisma che ha dilaniato la Chiesa cattolica è ormai dimenticato. L’Anello del Pescatore, opera sconvolgente e visionaria, i n cui l’intrigo si snoda nel cuore della Storia, riscopre una disputa che risale al Medio Evo e insinua il dubbio capitolo dopo capitolo. Con quest’opera a cavallo tra il romanzo d’avventura, la favola mistica e il giallo, scritta con stile impeccabile, Jean Raspail si conferma più che mai scrittore di grande talento.

Recensioni

Formato: 13,5x21 cm., Pagine: 318, ISBN: 8889466322 Prezzo: € 16,00

Vite di Caravaggio

caravaggio coverUn progetto di Francesca Valdinoci

Prefazione di Marta Ragozzino

Vite di Caravaggio raccoglie per la prima volta in un unico elegante ed agile volume le più antiche biografie di Caravaggio: le opere, i giudizi, gli aneddoti, e le avventure che hanno reso celebre Michelangelo Merisi e continuano ad alimentare il suo mito nella storia.

Gli Autori

Karel van Mander, da La vita di altri pittori italiani … a Roma 
nota introduttiva di R. De Mambro Santos;

Giulio Mancini, Di Michelangelo Merisi da Caravaggio
nota introduttiva di L. Casadei;

Giovanni BaglioneVita di Michelangiolo da Caravaggio, Pittore
nota introduttiva di F. Valdinoci;

Giovan Pietro Bellori, Michelangiolo da Caravaggio
nota introduttiva di M. Nicolaci;

Joachim Von SandrartMichel angelo Marigi Da Caravaggio, Pittore
nota introduttiva e traduzione di C. Mazzetti di Pietralata;

Francesco SusinnoVita di Michelangnolo Morigi, Pittore da Caravaggio
nota introduttiva di F. Valdinoci.

wolfango caravaggio

 

 

 

 

 

Formato: 13,5 x 17 cm., Pagine: 220, ISBN: 8889466531 Prezzo: € 16,00

Il Deserto e l’Occidente

desertoRenato D’Antiga

In questo saggio Renato D’Antiga rileva un’opposizione esistente sin dalle origini nel Cristianesimo tra conoscenza e salvezza, opposizione che troverà soluzione nel movimento monastico con la pratica della deificazione. Dopo aver approfondito gli aspetti della filosofia del deserto, attuata con la fuga mundi, l’autore scorge all’alba del secondo millennio, i germi della sua negazione nella nascente ratio occidentale. Da qui, secondo D’Antiga, origina il processo, inizialmente lento, di desacralizzazione del mondo.

Formato: , Pagine: pp. 157, ill. b/n, ISBN: 978888946658 Prezzo: € 16,00

Recensioni a Giochi senza frontiere

Il Padova del 25/03/2007

“Il cricket contro le frontiere”
di Davide Bacca

In molti hanno evocato riti voodoo. Altri, più prosaicamente, hanno tirato in ballo commistioni mafiose con il mondo delle scommesse. Fatto sta che i Mondiali di Cricket, le cui partite sono in corso lungo i Caraibi fino al 28 aprile, stanno vivendo un vero e proprio giallo. Domenica scorsa l’inglese Bob Woolmer, coach dellaNazionale pakistana, è stato trovato ucciso nella sua stanza d’albergo. Poco dopo, anche l’ex presidente della federazione irlandese, Robert Kerr, è stato trovato morto nel suo hotel giamaicano.

Ombre scure che si addensano su uno sport che ha nel suo dna la capacità di essere griglia interpretativa per alcuni passaggi cruciali della storia degli ultimi due secoli. Così almeno la pensava Cyril Lionel Robert James, che nel suo libro Giochi senza frontiere. Del Cricket o dell’arte della politica (da poco tradotto in italiano dalla padovana Casadeilibri) mette insieme una superba testimonianza autobiografica e un vero e proprio saggio sulla storia e la filosofia del cricket. James, nato a Trinidad nel 1901 e morto a Londra nel 1989, è una delle figure di riferimento della cultura caraibica postcoloniale (da ricordare il suo saggio I giacobini neri. La prima rivolta contro l’uomo bianco che negli anni ’70 – periodo in cui James militò nelle Pantere Nere – ebbe una discreta fortuna anche in Italia).

Giornalista, storico, scrittore, le sue analisi hanno attraversato criticamente il marxismo, ricavandone interpretazioni originali. “Nelle mie riflessioni – scrive per esempio James – ero sempre più cosciente dell’esistenza di vasti ambiti che la prospettiva storica e politica a cui aderivo non riuscivano a coprire”. Dopo aver soggiornato per 15 anni negli Stati Uniti, dove fu vittima del maccartismo, il ritorno a Trinidad coincide con il riaffiorare della sua passione per il cricket e le tematiche coloniali. Un contrasto, a prima vista. Com’è possibile che un “nazionalista nero”, definisca se stesso attraverso una tradizione europea e britannica come quella del cricket? La risposta è nelle dense pagine di Giochi senza frontiere, pubblicato nel 1963. Nello stesso tempo saggio sul colonialismo, biografia intellettuale e “il libro più bello che sia mai stato scritto sul cricket”. Il fatto è, spiega James, che il cricket è uno sport popolare, rurale, pre-moderno. Spazi e tempi di gioco sono indefiniti, regole e leggi sono parte integrante della partita. La sua nascita “si deve ai piccoli proprietari terrieri, ai guardiacaccia, agli stagnini, ai fabbri, ai minatori del carbone di Nottingham, ai braccianti agricoli dello Yorkshire”. Il gioco “sa abbattere le frontiere” perchè riesce a risolvere, sul campo, l’eterno problema del rapporto uno-altri, tra l’individuo e la società: il cricket inculca valori, come il fair play e la lealtà, che appartengono al processo di civilizzazione.James va anche oltre: “A mio giudizio il cricket contiene elementi genuinamente artistici” tanto che “si può affermare che esso comprenda la maggior parte degli elementi artistici che possono essere rinvenuti negli altri sport”. L’edizione italiana (300 pp., 18 euro) comprende infine una bella introduzione di Umberto Zona e un’apparato critico per entrare nei complessi meandri di questo sport.

 

Diario/Lettera 22 del 14/06/2008

Perché a Musharaff piace giocare a cricket
di Emanuele Giordana

Sulla quarta di copertina di “Stanotte la libertà” di Dominique Lapierre e Larry Collins, uno dei libri più fortunati della storia del giornalismo, due ex ufficiali del British Indian Army, l’esercito del Raj britannico, posano soddisfatti al posto di frontiera indo-pachistano che divide il Punjab. Il primo è un maggiore del Pakistan col basco d’ordinanza sulla divisa kaki. Il secondo è un colonnello sikh dell’esercito dell’Unione indiana, con tanto di barba e turbante. Accanto agli autori, lungo la linea di confine che dal 1947 divide l’India dal Pakistan, i due hanno probabilmente in comune almeno tre cose: appartenevano, prima della Partition, allo stesso esercito che, dal 1858 al 1947, si chiamava semplicemente Indian Army; provengono assai probabilmente dalla medesima terra – il Punjab, la regione dei cinque fiumi che fu divisa dal righello coloniale del giurista britannico Cyril Radcliffe. Infine condividono la stessa passione per il medesimo sport: il cricket. Di queste tre possibilità, la terza è sicuramente la più certa.
A sessant’anni da quella notte dell’agosto 1947 in cui neo pachistani e indiani raggiunsero la libertà dall’Impero di Sua Maestà, molte cose sono cambiate nelle due sorelle divise da quel parto brutale. Ma la passione per il cricket è rimasta la stessa. E’ andata anzi, col tempo, aumentando. Facendo di Pakistan e India due delle più abili nazioni a maneggiare la mazza piatta e la pallina di pelle di cervo che costituiscono il cuore di un gioco nato nel Sud dell’Inghilterra tra il XIV e il XV secolo, ma divenuto molto popolare in epoca vittoriana e, da allora, trasferitosi con sempre maggior fortuna nelle colonie dell’Impero. Di più: il cricket ha finito per rappresentare, per Pakistan e India, sia un motivo di orgoglio identitario quando si giocano i campionati internazionali, sia il modo ufficioso per tornare a stringersi la mano quando la politica fa fatica o sceglie altre vie che non siano quelle formali dei negoziati ufficiali. India e Pakistan usano il cricket per giocare e divertirsi, scommettere e arrabbiarsi, godere e imprecare ma anche per parlarsi, negoziare, stemperare tensioni o, al contrario, inasprirle.

Il cricket e i suoi cantori
Che il cricket abbia una vocazione politica, o che si presti ad essere letto con le categorie della politica che, a loro volta, possono essere interpretate con le categorie del gioco, lo scrisse per primo un intellettuale delle Indie occidentali nato nel 1901 a Port of Spain, Trinindad, dove aveva passato gioventù e adolescenza nelle librerie dell’Impero e sui campi da cricket dei college o più semplicemente ricavati in qualche prato dell’isola. In un libro assai meno famoso (almeno in Italia) da quello che lo fece conoscere al grande pubblico – I giacobini neri, pubblicato nel 1938 e nel Belpaese negli anni Settanta, più recentemente nel 2006 – Cyril L. James, un fervente socialista nero, sposa l’idea che il cricket va ben oltre la sola forma del giocare. Non è insomma “solo un gioco” e a sostegno della sua tesi cita i classici: “…tra tutti i popoli, i greci furono i più portati alla politica e i più creativi dal punto di vista intellettuale e artistico…veneravano gli eroi sportivi a un livello che farebbe impallidire i nostri cacciatori di autografi…al nostro ipocrita “è solo un gioco” avrebbero risposto con fastidio…”. I greci infatti, spiega ancora nel suo Giochi senza frontiere. Del cricket o dell’arte della politica (uscito in Italia per Casadei), “…erano convinti che un atleta che avesse rappresentato la sua comunità in una competizione nazionale, e vinto, avrebbe conferito un notevole prestigio alla sua città”. Il gioco è dunque, per i neri e gli oppressi delle colonie, la metafora dell’indipendenza. E il cricket, sport della “madrepatria” imperiale, diventa – nell’analisi di James – l’oggetto del desiderio degli oppressi alla ricerca di un riscatto. Nella prefazione al suo corposo saggio, Umberto Zona ricorda che lo studioso indiano Ashis Nandy ipotizza che la riuscita del cricket nel subcontinente si regga su una struttura mitica che lo renderebbe particolarmente affine alla sensibilità di alcune culture indigene. E che, per dirla con lui e il suo The Tao of cricket, “… è un gioco indiano accidentalmente scoperto da un inglese”. Nella lettura di James, il cricket diventa per la gente delle colonie uno spettacolo che rappresenta l’“estetica della resistenza”, emancipazione e auto affermazione: dal campo di gioco a quello di battaglia, “oltre la linea del colore”, del quale il conteggio dei punti, l’interminabile durata delle partite, le regole d’oro che impongono una correttezza suprema, non tengono conto.

Cricket & Pakistan
In Pakistan il cricket è diventato così tanto politica da aver dato al panorama locale, con Imran Khan, un grande fuoriclasse sia on the field (un campo in erba dalla forma ovale o rettangolare con dimensioni variabili) sia nell’agone partitico. Senza contare che lo stesso Musharraf, per non dire del generale Zia ul-Haq, rientrano (o rientravano) tra i grandi appassionati del gioco. Imran Khan è stato forse più bravo come giocatore (un all-rounders, come si dice in gergo: buono a battere, a lanciare, a prendere la palla) che non come politico. Ma il fondatore del “Movimento per la giustizia”, l’uomo che ha portato il Pakistan alla conquista della World Cup nel 1992, è riuscito a costruire la sua seppur piccola fortuna politica soprattutto sulla fama di giocatore. Tanto che i denigratori sostengono che le folle che accorrono ai suoi comizi ci vanno per vedere gli stessi gesti che fecero di lui il grande Imran che aveva giocato in nazionale per oltre vent’anni. La vera importanza del cricket nella politica dei due paesi, sta invece nella sua capacità di essere veicolo negoziale. Fino al 2006, forse non a caso, alla testa del Pakistan Cricket Board (Pcb) c’era un ex diplomatico di rango. Shaharyar Khan sapeva benissimo che si trovava in un posto delicato in un momento burrascoso e non solo perché il board era sotto tiro, accusato di nepotismo e corruttela. Erano tempi difficili. E fu anche attraverso il cricket che, soprattutto il Pakistan, tentò i passi di un riavvicinamento difficile con l’India. L’aumento della tensione nelle relazioni politiche tra Islamabad e Delhi, tra il 2001 e il 2002 dopo l’assalto terroristico al parlamento dell’Unione, aveva portato le due potenze nucleari sull’orlo dell’ennesima guerra. L’occasione arriva nel marzo del 2004 quando ormai, almeno in parte, la situazione si è raffreddata. La nazionale indiana va a giocare a Karachi, un catino da 33mila spettatori. E’ la prima volta dalla fine del secolo scorso che gli indiani vanno a giocare in Pakistan. La tensione è alta ma non succede nulla nonostante i timori di incidenti. Chi abbia vinto la partita ci interessa poco. Come avrebbe detto James, fu la politica a vincere quel match. Diplomazia e cricket tonano d’attualità l’anno dopo, nel 2005. Al governo in India c’è adesso il partito del Congresso e il primo ministro è il sikh Manmohan Singh, braccio destro e fedelissimo di Sonia Gandhi. Singh non solo caldeggia una partita della nazionale pachistana in India ma invita lo stesso Musharraf a presenziarvi.

“Cricket diplomacy: has worked!”
Quando la testata indiana Rediff chiede a Shaharyar Khan di fare un bilancio della “cricket diplomacy”, il dirigente del Pcb non ha dubbi: “funziona”, dice. Il giornalista lo incalza: sa che S. Khan non è solo un fine diplomatico e un conoscitore delle regole del gioco, ma anche il cugino di Mansur Ali Khan Pataudi, detto “Tigre”, uno dei leggendari capitani del team nazionale indiano. Shaharyar ne approfitta per spiegare allora che le tensioni si sono allentate, che è più facile viaggiare tra i due paesi e visitare i parenti. In realtà adopera la cricket diplomacy anche nell’intervista e rivela che Musharraf gioca volentieri a squash e a tennis ma che la sua vera passione è il cricket. “Forse non è un giocatore eccelso – dice – ma lo ha giocato e ne conosce tutte le raffinatezze”. Una maniera sottile per dire agli indiani che Musharraf è affidabile. E anche simpatico. Non è al prima volta che il cricket e la diplomazia vanno a braccetto. Nel 1987 il generale Zia ul-Haq, un uomo che con l’India ha avuto sempre pessime relazioni, va a Jaipur a vedere un incontro. In realtà fu solo un piccolissimo passo avanti nelle relazioni tra i due paesi. L’anno dopo Zia morì in un controverso incidente aereo. E anche la cricket diplomacy ebbe una battuta d’arresto. Naturalmente il cricket è ben altro in Pakistan che solo politica e diplomazia: gioco soprattutto, e naturalmente tifo, soldi, business. E anche diversi guai. I due più antipatici arrivano nel 2006 e nel 2007. Il primo è solo una polemica di gioco. Un lanciatore pachistano viene accusato di aver maneggiato la palla in modo “falloso” prima di tirarla. E’ subito polemica perché “nulla può essere utilizzato per “favorire” il lancio, salvo la saliva o il sudore, cioè qualcosa che viene dal corpo”, spiega Alfonso F. Jayarajah, cittadino italiano di origini tamil, una delle colonne con Simone Gambino del cricket italiano. L’arbitro viene contestato e la notizia fa il giro del mondo tanto da arrivare persino sui giornali italiani che, benché in Italia esista anche una nazionale di cricket (di cui Alfonso è stato il primo capitano), ignorano questo sport che fa impazzire circa un miliardo e mezzo di anime, dall’Afghanistan al Sudafrica passando per l’Australia. Ma il fattaccio brutto deve ancora arrivare.

It’s not cricket!
Arriva in marzo, in Giamaica. Bob Woolmer, allenatore della nazionale pachistana, viene trovato morto in una camera d’albergo di Kingston. Sarebbe stato strangolato per via di un giro di scommesse durante i mondiali. Tensione alle stelle e inchiesta a tutto campo, giocatori compresi. Anche lì arriva subito la cricket diplomacy ma in un’altra accezione: Islamabad alza la voce per ottenere che la polizia giamaicana non blocchi a Kingston la squadra che i magistrati vorrebbero interrogare. Alla fine la Giamaica cede, anche se tra i due paesi non esiste un trattato di estradizione e il team torna in patria. Il caso Woolmer solleva schizzi di fango, dubbi e perplessità. Perché, si chiedono in molti, il Pakistan, già vincitore con Imran Khan di una coppa mondiale, ha perso con l’Irlanda (come se l’Argentina, per dirla in termini calcistici, si facesse fare cappotto dalla squadra bresciana del Lumezzane)? La partita era truccata? Bob lo aveva capito? Si solleva il velo su un mondo miliardario e Lord Condon, a capo dell’International Cricket Council’s Corruption Unit, spiega ai giornali che, in termini di scommesse, una partita di cricket può valere anche un miliardo di dollari… Com’è finita? Dopo tre mesi gli inquirenti giamaicani hanno chiuso il caso sostenendo che Woolmer era morto per cause naturali. Attacco cardiaco. Una frettolosa decisione che la magistratura isolana ha contestato, decidendo di riaprire l’inchiesta di cui non si è saputo più nulla. Ma i tifosi, si sa, dimenticano in fretta. Anche quella locuzione ormai entrata nel lessico dell’inglese moderno che recita: “it’s not cricket”, per dire che una cosa non è corretta, che insomma non va. Non va come dovrebbe invece andare la palla rossa di pelle di cervo (per non urtare, col maiale o la vacca, la sensibilità di indù e musulmani) che, ben lanciata, può arrivare a 140 chilometri l’ora. Compiendo in meno di mezz’ora la distanza tra Lahore (Pakistan) e Amritsar (India), nel cuore del buon vecchio Punjab diviso in due dalla linea Radcliffe.

Giochi senza frontiere

cricketDel cricket o dell’arte della politica

C.R.L. James

Giochi senza frontiere (Beyond a boundary) è uno dei capolavori di C.R.L. James, straordinaria figura intellettuale che ha attraversato tutto il ‘900 con passione ed intelligenza, coniugando il suo ompegno politico con l’amore per la filosofia, la letteratura, l’arte e…. il cricket che per James è molto più di un gioco. Per James, il cricket contiene gli elementi fondamentali della vita, combinando al suo interno spettacolo, storia,politica, movimento e stasi, individuo e società; per questo il cricket va oltre il limite del campo di gioco, i fragili confini che separano la cultura dalla politica, la razza dalla classe, l’oralità della letteratura alta, ed è un formidabile strumento per leggere le strategie del colonialismo britannico. Un romanzo e un saggio originalissimo, scritto nel corso degli anni, Beyond a boundary fu pubblicato nel ’63 e ininterrottamente ristampato fino ad oggi in molti paesi del mondo, divenendo peraltro una vera e propria “Bibbia” per tutti gli appassionati di cricket.

beyond a boundaryC.R.L. JAMES, nato nel 1901 a Port of Spain (Trinidad), al tempo colonia britannica, da una famiglia di modeste condizioni, James si trasferì dapprima in Inghilterra, dove si dedicò alla politica, divenendo uno degli animatori del Socialist Worker’s Party, poi negli Usa dove rimase fino al 1953, anno in cui fu espulso, dopo essere stato incarcerato. Ritornato in Inghilterra, morì a Londra, nel 1989. Uomo coltissimo, soprannominato il “Platone nero”, fu pioniere del movimento panafricanista e teorico marxista ma anche scrittore raffinato, giocatore di cricket e giornalista sportivo, attore, critico letterario, storico. Punto di riferimento per l’intellighenzia nera e per buona parte della cultura anglosassone, James ci ha lasciato numerosi scritti, di cui solo alcuni tradotti in italiano. Tra questi: World Revolution, 1917-1936 (1937), The Black Jacobins (1938), A History of the Negro Revolt (1938), Facing Reality(1958), Notes on Dialectis (1948), State Capitalism and World Revolution (1950), Mariners, Renegades and Castaways: The Story of Herman Melville and the World We Live in, oltre all’imponente American Civilization, rimasto incompiuto.

Recensioni

Formato: 13,5 x 21 cm., Pagine: 256, ISBN: 888946609x Prezzo: 18,00

La Cucina degli angeli

cucina copertinaLuc Benoist

La beauté seule peut transformer en charité son propre mépris

Traduzione di Francesco Maria Fonte Basso
In quest’opera, premiata dalla Revue Universelle nel 1930 con lo stesso titolo del noto quadro di Murillo esposto al Louvre che rappresenta un miracolo di San Giacomo, e che può simboleggiare il meccanismo dell’ispirazione, l’autore esamina in tutti i suoi aspetti il processo della creazione intellettuale e propone al lettore un centro comune che comanda le più differenti realizzazioni. Ricco di contenuti e di suggestioni indefinite, come dice Gabriel Marcel nella sua prefazione, questo saggio incanterà gli appassionati d’estetica e li condurrà alla soglia dei grandi principi, quelli di Leibniz, di Platone, e delle dottrine tradizionali la cui rinascita è il carattere spirituale più sorprendente della nostra epoca.

Formato: 13,5 x 21 cm., Pagine: € 122, ISBN: 88-89466-33-6 Prezzo: 12,00

Luc Benoist

Luc Benoist (1893-1980) è stato assistente al Musée de Versailles e conservateur honoraire des Musées de France. A partire dal 1928, iscopre l’Opera di René Guénon che lo spinge a modificare ed orientare la propria prospettiva. Corrispondente di Guénon all’epoca già al Cairo, divenne collaboratore regolare della rivista Études Traditionnelles.

Autore di numerosi scritti sull’arte come La Sculpture romantique, Paris, 1928, La Renaissance du Livre. Art du Monde, la spiritualité du metier, tra i sui libri tradotti in italiano ricordiamo: Segni, simboli e miti. – Milano : Garzanti, 1976 e Il Compagnonaggio e i mestieri – Amiedi, Milano.